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Biografie e Foto

Ultimo Aggiornamento: 14/06/2007 15:06
13/09/2006 15:38
 
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In questo topic posteremo le biografie, con le relative foto degli artisti Rock e Punk.

Per questioni d'ordine:

- Le foto postate non devono essere più grandi di 500x500, e massimo due foto per artista.
- Non asprimete commenti sugli artisti, postate solo quello richiesto dal topic.

I moderatori si riservano il diritto di cancellare quello che non rispetta queste due semplici regole.


Grazie!

[Modificato da janie.jones 22/02/2007 16.09]

01/10/2006 15:32
 
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Città: MANDURIA
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C'erano una volta Ka e Dani, due ragazzi che facevano rock nella cantina di un locale vicino Legnano. E c'erano, un'altra volta, Ste e Pedro, che suonavano grunge con il loro gruppo. Un giorno, i quattro si conoscono (tramite la scuola e l'Accademia di Musica) e decidono che amici, ragazze e tutto il resto passa in secondo piano. Decidono di fare musica sul serio. E decidono di fare punk. Era il 10 Maggio del 2000. Così nascevano i Finley.

Michael Finley è un giocatore del basket Nba, Dallas, ma i quattro non sono cestisti convinti: la scelta, spiegano, è dovuta alla musicalità del nome. I Finley iniziano la loro gavetta come mille altri gruppi della scena giovane italiana: concerti, esibizioni, feste, ogni palco è buono per loro all'inizio. E sul palco sfornano un pop punk travolgente, capace di far battere il piede al primo ascolto.
"Abbiamo iniziato come tanti" spiega Ka "suonando "Basket Case" dei Green Day. Poi basta cover e ci abbiamo messo del nostro!".
"Scriviamo i pezzi a otto mani" racconta Dani, il batterista: "A volte uno di noi sforna tutto, musica e parole, altre volte lavoriamo insieme, a casa, dove capita, anche a lezione all'università".

I quattro sono cresciuti a pane, punk e rock, ascoltando e riascoltando e "digerendo" tutta la scena punk californiana, dai Green day ai Blink 182, ma anche gruppi come NoFx, Rufio, Yellowcard.
Insomma, almeno all'inizio nella band c’erano due anime: quella punk e quella hardcore. Poi, il lavoro in studio (o meglio in cantina) e dal vivo (più di trenta esibizioni) li porta a battezzare il loro genere. E il singolo "Tutto E' Possibile", che nasce dalla versione inglese del brano ("Make up your own mind") è uno dei primi sfornati dalla band di Legnano: "Adesso la nostra musica è un pop punk, un punk più pulito e ordinato" spiega Pedro, il cantante. "Comunque anche se molti diranno che è musica commerciale, il nostro non è un compromesso, è una precisa scelta musicale".
Le canzoni dei Finley parlano di vita vissuta, di storie quotidiane di ragazzi, dell'incontro tra due ragazzi ("Ray of light"), ma anche delle false promesse ("Dollars and cars") e, come in "Tutto è possibile", un inno potente e gioioso all'individualità e all'anticonformismo, del non farti etichettare e di vivere la vita a modo tuo.
Questa è la lezione del punk targato Finley.

Inglese o Italiano?
I Finley cantano alcune canzoni in inglese, altre in italiano."Non c'è nessuna forzatura", spiega Pedro, "a volte il brano nasce in italiano, altre volte in inglese".
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Mi guardate male perchè sono DIVERSA...io vi guardo e rido pechè siete tutti UGUALI.
Emily Strange

Arriva un momento nella vita in cui non rimane altro da fare che percorrere la propria strada fino in fondo. Quello è il momento d'inseguire i propri sogni, quello è il momento di prendere il largo, forti delle proprie convinzioni.

Un giorno anche la guerra si inchinerà davanti al suono di una chitarra.
Uccidere è il coraggio di un momento...vivere il coraggio di sempre.
Se per vivere ti dicono "siediti e sta zitto" tu alzati e muori combattendo.
Jim Morrison
10/11/2006 21:22
 
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Luciano Ligabue nasce a Correggio il 13 marzo 1960, cittadella emiliana che lo ha visto agli esordi con in primi concerti in un circolo culturale insieme con il gruppo degli "Orazero". La gavetta con il gruppo è lunga, interminabile. Ligabue, ormai già ventisettenne (un'età non verdissima nel campo del rock), ancora gira per i locali senza intravedere con precisione davanti a sé un futuro di affermazione e di soddisfazione artistica.
Corre l'anno 1987 quando Pierangelo Bertoli decide di pubblicare nel suo album "Sogni di rock and roll", una canzone scritta da Ligabue. Nel luglio dello stesso anno Luciano ottiene con il gruppo la vittoria al concorso "Terremoto rock". Questi due traguardi consentono al cantante emiliano e agli Orazero di incidere un 45 giri (ormai praticamente introvabile), contenente le canzoni "Anime in plexiglass" e "Bar Mario". Il 1988 si chiude con la partecipazione fra i finalisti del "Primo Concorso Nazionale per Gruppi di Base" grazie al quale un'altra canzone, "El Gringo", viene pubblicata sulla compilation del concorso.
Nel 1989 Ligabue, separatosi dagli "Orazero", si unisce con i "ClanDestino" e con questi entra per la prima volta in uno studio di registrazione per realizzare un album. Venti giorni di registrazioni e nel mese di maggio del 1990 nasce il primo LP, intitolato semplicemente "Ligabue". Con il pezzo forte dell'album, "Balliamo sul mondo", vince il premio più importante della sua fin qui breve carriera, il "Festivalbar Giovani". Dopo questa esperienza, parte con una serie di oltre 250 concerti in tutta Italia.
Durante questo periodo compone le canzoni per i due album successivi: "Lambrusco, coltelli, rose & popcorn" e "Sopravvissuti e sopravviventi". I due dischi consentono al cantante di mettere in luce le sue qualità a 360 gradi, anche se pubblico e critica ancora faticano a riconoscerlo come un rocker di primo piano del panorama musicale.
Siamo alla fine del 1994: Ligabue pubblica il suo quarto album, trainato dal singolo "A che ora è la fine del mondo". Venduto a prezzo speciale, riscuote molto meno successo dei precedenti, ma non si tratta ancora della grande consacrazione. E' famoso ma non popolare, ha un grosso seguito ma non ha ancora sfondato nel senso pieno del termine.
Abbandona i "ClanDestino" e cambia la formazione della band. Prepara dunque l'album "Buon compleanno, Elvis", che segna il suo definitivo successo. Basta dare un'occhiata alle cifre per confermare queste affermazioni: oltre un milione di dischi venduti, oltre 70 settimane di permanenza nella classifica degli album più venduti ed il premio Tenco per la miglior canzone dell'anno ("Certe notti"). Il tour successivo all'uscita dell'album conferma il successo, con decine di concerti nella penisola, tutti esauriti.
Malgrado il successo ottenuto, i panni del semplice cantante gli vanno stretti. All'uscita dell'album si affianca anche l'uscita del suo primo libro, "Fuori e dentro il borgo", ritratto del sottobosco bolognese con le sue storie e i suoi straordinari personaggi. Il libro, com'era prevedibile, è un successo; non solo di pubblico ma anche di critica.
Queste gratificazioni parrebbero ricondurre "il Liga" sulla via della musica, invece decide di rimettersi nuovamente in discussione, scegliendo di scrivere la sceneggiatura di un film la cui trama riprende alcune delle vicende raccontate nel suo libro. Nasce così "Radio Freccia" (1998, con Stefano Accorsi e Francesco Guccini), presentato per la prima volta a Settembre al Festival del Cinema di Venezia dove, iscritto fuori concorso, raccoglie numerosi consensi. Il film ottiene in totale tre Nastri d'Argento (Miglior regista esordiente, miglior colonna sonora, miglior canzone) e due David di Donatello (Miglior regista esordiente e miglior colonna sonora), oltre che a rastrellare miliardi di lire al botteghino.
A quella del film si accompagna anche l'uscita della colonna sonora, contenente alcuni classici degli anni '70 e musiche composte appositamente da lui per la pellicola. Uno di questi brani, "Ho perso le parole", consente a Ligabue di vincere il Premio Italiano della Musica nella categoria "Miglior canzone del 1998".
Il lavoro di Ligabue non è solo quello del cantautore. La vena del rocker c'è da sempre e i grandi, constinui e frequenti concerti lo dimostrano. Dopo il doppio live "Su e giù da un palco", i grandi concerti diventano enormi. Gli stadi più grossi del paese lo attendono.
Il nuovo lavoro discografico "Miss Mondo" esce il 17 settembre 1999 e conquista subito le vette delle classifiche di vendita. Il 22 ottobre parte il "MissMondoTour", una serie concerti (diventati quasi 40 dai 25 previsti inizialmente per la forte richiesta da parte del pubblico) con i quali il rocker di Correggio porta il suo disco in giro per i Palasport di tutta Italia.
Nel 2002 è la volta dell'ennesimo successo con il disco "Fuori come va?", seguito dal tour, e da un DVD.
Nel 2004 scrive un nuovo libro, un romanzo: La neve se ne frega.
Dopo tre anni lontano dagli studi di registrazione, nel mese di settembre 2005 esce l'attesissimo "Nome e cognome", preceduto da un concerto evento (Campovolo di Reggio Emilia, 10 settembre 2005), durante il quale Ligabue si alterna su quattro palchi diversi, uno principale, uno per un'ebisizione acustica solista, uno per una performance in coppia con il violinista Mauro Pagani e uno per esibirsi con la ex band dei "ClanDestino".


12/11/2006 15:12
 
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negazione
1983
C’era una volta un mondo senza Blink 182 e Green Day…Non è la preistoria, ma il 1983: molte cose erano diverse e in giro si diceva che il punk fosse morto dopo i Sex Pistols mentre era semplicemente sopravvissuto alla moda e si era diffuso in tutto il mondo: un modo di essere, pensare, agire e soprattutto suonare. Dalla California al Giappone, dall’Inghilterra al Brasile. Fino a Torino, dove Tax (chitarra) e Orlando (batteria) decidono di mollare la band più politica e militante della scena locale (5° Braccio) per fondare un gruppo che suoni veloce, duro e potente, scrivendo e cantando testi più ‘personali’ e con meno ‘slogan’ (ovviamente in italiano: all’epoca non c’erano dubbi, si trattava di comunicare e urlare, con rabbia). In una parola: hardcore. Contattano Zazzo (voce) e Marco (basso), reduci dal primo (e ultimo) concerto di un’altra band torinese (AntiStato) e a febbraio (1983) iniziano a provare. I NEGAZIONE fanno il loro esordio sul palco in primavera, poi continuano a suonare dal vivo in giro per l’Italia.

1984
Dopo un anno, parecchi concerti e il primo cambio di batterista (da Orlando a Michele), arriva la prima registrazione: una cassetta intitolata Mucchio Selvaggio e divisa a metà con i Declino, hardcore band torinese che nell’estate accompagna i primi concerti dei NEGAZIONE fuori dall’Italia (Bielefeld e Berlino in Germania, Groningen in Olanda e Arhus in Danimarca).

1985
Mucchio Selvaggio diventa un album, pubblicato in Inghilterra, ma nel frattempo i NEGAZIONE hanno autoprodotto il loro primo 7”EP (Tutti Pazzi), cambiato nuovamente batterista (dentro Fabrizio, ex Upset Noise) e inanellato un’altra serie di concerti. In Italia, ma soprattutto in Danimarca e in Olanda.
Ad Amsterdam tornano per registrare il secondo 7”EP (Condannati a morte nel vostro quieto vivere) e da lì partono per altri tour (Olanda, Germania, Svizzera, Spagna) intervallati da parecchi concerti in Italia. L’hardcore si sta diffondendo a macchia d’olio nella scena alternativa europea (a quel tempo lo era veramente e infatti non c’era nemmeno bisogno di chiamarla così…). Posti occupati, sale prese in affitto, centri giovanili: i NEGAZIONE suonano ovunque riescono ad arrivare, malgrado furgoni che si rompono, fermi di polizia alle frontiere (l’hardcore italiano che piaceva tanto in Europa non era così apprezzato da poliziotti e finanzieri…). Incontrano amici e fan sopra e sotto i palchi dove si celebra il rito dello stage-diving e iniziano a scrivere i testi anche in inglese.

1986
Esce il primo album: Lo spirito continua. Registrato ad A’dam e pubblicato in Europa dalla neonata etichetta olandese e indipendente (assolutamente indipendente: nelle intenzioni e soprattutto nei modi) De Konkurrent (poi Konkurrel). Il disco viene pubblicato qualche mese dopo negli Stati Uniti da Mordam Records e si progetta un tour americano senza fare i conti con la legge italiana, che nega agli obiettori di coscienza il passaporto durante il periodo di chiamata al servizio civile. Allora si va a suonare ovunque accettino la carta d’identità: Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Danimarca, Inghilterra e ovviamente Olanda.

1987
Tour dopo tour, macinando migliaia di chilometri, il seguito dei NEGAZIONE si ingrossa e il tam-tam delle fanzine si trasferisce anche sui media ufficiali (in Europa prima che in Italia, ma questa è un’altra storia…). Fabrizio molla il gruppo e Tax si trasferisce ad Amsterdam dove gli altri si apprestano a raggiungerlo, inizia anche a provare potenziali batteristi. Ma poi Fabrizio ci ripensa, si torna in Italia e si inizia a comporre il nuovo materiale.

1988
Entusiasmi e difficoltà accompagnano la storia dei NEGAZIONE fino alla primavera, quando esce il secondo album: Little Dreamer, registrato ad Eindhoven con il mitico Theo Van Rock (produttore olandese che ha poi lavorato per anni con la Rollins Band) e pubblicato dalla We Bite Records (altra etichetta indipendente, questa volta tedesca). Alla vigilia del solito tour europeo, Fabrizio abbandona definitivamente la band per motivi personali: l’immediata convocazione a Torino di un batterista olandese (Rowdy, già con i Pandemonium) e giorni (più notti) trascorsi in sala prove, consentono di partire per l’ennesimo periodo di nomadismo e concerti europei. Marco, Zazzo e Tax non mollano il colpo, ma iniziano a rendersi conto che i NEGAZIONE sono una storia a 3, anche se continueranno a reclutare batteristi con la speranza di trovare un membro effettivo per il gruppo.

1989
A Rowdy succede Elvin (già impegnato con i Gow, glam-rock band torinese…) che registra (ancora Eindhoven, ancora il mitico Theo) il successivo episodio discografico (Behind The Door, 12”EP e Sempre in bilico, 7”EP, pubblicati anche in un unico CD, tutto su We Bite), seguito dall’inevitabile serie di concerti, in Italia e in Europa. I primi dischi, ormai introvabili e preda dei collezionisti, vengono intanto raccolti in un unico album (Wild Bunch: The Early Days anche questo marchiato We Bite), mentre TVOR On Vynil ristampa in Italia una nuova edizione de Lo Spirito Continua. L’ennesima ricerca di un batterista porta all’incontro con Jeff, bolognese di origini campane che verrà ribattezzato Neffa, in onore di un oscuro calciatore paraguayano in forza alla Cremonese (il resto della sua carriera dovreste conoscerlo: quella di Jeff ovviamente…).

1990
Rodata la formazione in altri tour, che frequentano sempre più spesso l’Italia, durante l’estate i NEGAZIONE affrontano le registrazioni del nuovo album (sempre Eindhoven, sempre con Theo), prima di volare in America, per suonare al New Music Seminar di New York (prima band italiana invitata, insieme agli eroi della dance di quel periodo, i Black Box, ovviamente in due club diversi…) e unirsi ai D.O.A., leggendaria band canadese, per un tour che dura 45 giorni (e quasi altrettanti concerti) attraverso Midwest e Costa Est. Ritornano in Europa per mixare 100%, che esce all’inizio dell’inverno (ancora su We Bite, ma pubblicato anche negli Stati Uniti da We Bite America e in Italia da Godhead/Flying) e partono per il tour europeo che, oltre a toccare i paesi già visitati negli anni precedenti, si avventura in quella che di lì a pochi mesi tutti avrebbero iniziato a chiamare EX-Yugoslavia.

1991
In Italia la popolarità dei NEGAZIONE aumenta al punto che a settembre sono invitati a esibirsi sul palco del Monsters of Rock, prima di AC/DC e Metallica, di fronte a 45mila persone (e senza essere diventati metallari…). Ah, dimenticavamo… pochi mesi prima Jeff era stato sostituito da Massimino (già con Stinky Rats e Indigesti, in seguito suonerà con Angeli e Persiana Jones) e la nuova formazione era stata rodata da una manciata di concerti in Spagna.

1992
I NEGAZIONE suonano ancora in giro per l’Italia, ricevono offerte di contratti da parte di etichette americane e italiane (a questo giro non solo indipendenti…) e iniziano a comporre i brani per l’album successivo. Ne completano qualcuno, ma intanto scazzano parecchio tra di loro e infine, dopo nove anni e parecchie centinaia di concerti, al culmine della loro popolarità italiana decidono di sciogliersi. Salgono sul palco, per l’ultima volta, il 19 luglio del 1992.




[Modificato da janie.jones 08/12/2006 18.32]

[Modificato da janie.jones 08/12/2006 18.51]









12/11/2006 16:31
 
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various
eccovi qualche chicca sui miei gruppi punk/oi!/hc italiani preferiti!! ll1

PEGGIO PUNX
i Peggio Punx sono stati un gruppo musicale punk Hardcore Punk attivo ad Alessandria fra il 1982 e il 1989. Nel loro ultimo album il nome è stato cambiato in Peggio, cambiamento che rispecchia una virata sonora verso sonorità decisamente meno hard core. La band si è contraddistintinta per la musica spesso sperimentale (nel primo album chitarra distorta "tipo mandolino", fino agli ultimi pezzi decisamente lontani dai canoni punk - hard core), e per i testi molto impegnati e riflessivi, testi dichiaratamente anarchici che li fanno essere una delle punk band più politicamente decise e schierate dell'intera scena italiana. Nei primi anni ottanta sono molto attivi nella scena italiana, partecipando a numerosi concerti, al fianco di gruppi come Wretched, C.C.M., Raw Power, ecc, in giro per i centri sociali occupati dai punx della penisola. I loro dischi sono autoprodotti, nel pieno dello spirito DIY dei gruppi punk più dichiaratamente "impegnati".
I componenti del gruppo sono: Marco (chitarra) Paolo (basso) Federico (batteria) Alberto (voce)
Recentemente è stata ristampata una raccolta contenente la loro discografia, e anche grazie a questa ristampa anche ora i Peggio Punx sono uno dei gruppi punk - hard core italiani più apprezzati di sempre.



WRETCHED
nacquero nella Milano del Virus occupato all'inizio degli anni '80, sul modello di anarco-punk bands inglesi come Crass e Discharge in primis. Da Via Correggio si spostarono live in tutta la penisola, ma anche all'estero, accompagnando tra l'altro in tour bands straniere del calibro (e della notorietà) di Disorder e Amebix. Si sciolsero definitivamente nel 1988 e oggi è quasi certo che non torneranno mai, nonostante il revival in corso nei loro confronti e le pressioni di molti gruppi italiani (soprattutto all'interno della scena crust-grind) che si sono rifatti abbondantemente a loro, Cripple Bastards su tutti.
La musica, o il caos dei Wretched, rigorosamente autoprodotto e scevro da implicazioni melodiche o commerciali di sorta, era di per sé un messaggio. Ecco perché i testi, accompagnati da un determinato discorso politico e conditi da una base di hardcore ruvidissimo e senza compromessi, sono, nel 90% dei casi, dei veri e propri manifesti anarco-pacifisti. Il numero degli slogan punk dovuti ai Wretched non si conta, così come non si conta il numero di dischi, 7", fanzines, tapes e bootlegs che contengono roba loro. O che continuano a contenere roba loro.





WOPTIME
I Woptime sono un gruppo hardcore di Torino formatosi nel 1999 e tutt'ora in attività.
Si formarono nel 1999 per iniziativa di Saverio e Paolo che avevano precedentemente militato nei Fuori Controllo gruppo Oi! di Torino. Nello stesso anno producono un demo registrato dal vivo durante la loro prima esibizione live al centro sociale El Paso a Torino.
Nel 2000 danno alle stampe il loro primo album Inferno sulla Terra, prodotto dalla Bad Attitude Records. Nel 2001 viene prodotto il loro secondo album intitolato Il Giorno del Giudizio. Nel 2002 registrano, di nuovo ad El Paso, il loro primo live ufficiale coprodotto da diverse etichette, contenente anche una cover della Oi! band torinese dei Rough (Torino è la mia città).
Nel 2004 registrano il loro ultimo lavoro in studio intitolato Mi Vida Loca distribuito in tutta Europa oltre che in Canada, Australia e Giappone. Per promuovere il nuovo lavoro viene organizzato un tour nell'Europa dell'est. Infine nel 2006 viene registrato il secondo live ufficiale intitolato Night Of Speed Demons durante un concerto insieme ad altre due gruppi storici della scena italiana: i Cripple Bastards e gli Skruigners.

Discografia:

Demo
EL PASO live demo (autoprodotta, 1999)

CD
Inferno sulla terra (Bad attitude Records, 2000)
Il giorno del giudizio (Bad attitude Records / Riot Records, 2001)
Live at El Paso (El Paso / Bad Attitude / SOA / EU'91 Serbian League, 2002)
Mi vida loca (Brutus Records, 2004)
Night of the speed demons (Live con Skruigners e Cripple Bastards) (Tube Records, 2006)



NABAT
I Nabat si formano a Bologna nel 1979.
La prima line-up era composta da Steno voce (già bassista di un’ altra formazione bolognese, i RAF PUNK), Stiv chitarra, Giulio basso e Davide alla batteria. Il primo gig si tiene al circolo anarchico “C.Bernieri”, dove i Nabat suonano insieme ad altre storiche formazioni delle scena punk bolognese come i già citati RAF Punk, gli Stalag 17, i Bacteria, gli Anna Falks etc.
Con la seguente formazione Steno alla voce, Stiv chitarra, UI- UI alla batteria e Abbondante al basso, i Nabat registrano un demo-tape con i concittadini RIP-OFF. La cassetta riscuote, per quanto riguarda i Nabat, un discreto successo. La band comincia a farsi conoscere anche fuori Bologna. Qualche tempo dopo Abbondante lascia il gruppo per unirsi ad una band rockabilly, mentre i Nabat, rimasti in tre, intraprendono con i Soldier Of Fortune un memorabile tour nel sud Italia. Nel 1982, la band registra al Teatro Dehon (uno studio di registrazione di tipo parrocchiale) il primo ed indimenticabile E.P. "Scenderemo nelle Strade" contenente cinque pezzi.
Il disco esce nel giugno dello stesso hanno per la loro etichetta la C.A.S. e vende circa 2000 copie (cifra considerevole per l'epoca). Nel frattempo alla band si unisce al basso Riccardo (ex batterista dei Rip Off e dei Bacteria).
In poco tempo i Nabat, anche in virtù di una impressionante attività live (circa 90 concerti nel solo 1982), diventano una delle più amate OI! band italiane. Nel 1983, sempre su C.A.S., esce in una lussuosa veste grafica il secondo E.P. “Laida Bologna”. Nello stesso periodo, i Nabat sono tra i protagonisti, nonchè tra i promotori, dei due raduni OI nazionali di Monza e Bologna, ben recensiti dalle fanzine e dalla stampa musicale indipendente. Lo scopo di questi concerti, in cui suonano band Skin e Punk, è quello di superare le divergenze che dividono i due movimenti.
“SKIN E PUNK SARANNO UNITI GLI OBBIETTIVI SON COMUNI QUESTI FOTTUTI PERBENISTI” cantano i Nabat e non si può che essere d' accordo.
Da dimenticare invece il terzo ed ultimo raduno Oi di Certaldo (maggio 1983) che finisce tra gli incidenti e le provocazioni di stampo fascista dei Rip Off e di una parte del pubblico.
I Nabat inoltre producono, sempre per la C.A.S, due ottime compilation :
“Skin+Punk =TNT” E.P. con Nabat, Dioxina, Armm e Rappresaglia e più tardi il LP “Quelli che urlano ancora” con vari gruppi della scena punk e skin italiana tra cui Cani, Klaxon, Basta, UDS, Hydra etc.
Quindi nell' 85, viene pubblicato dopo una lunga attesa il primo L.P. “Un altro giorno di gloria”, grande album con 10 grandi pezzi non solo OI. Alla chitarra c’e’ Red (ex Dioxina).
Il disco è dedicato a Nelson Mandela ed a Martò dei Judas (band bolognese degli anni 60). La band si scioglie nel 1987. Piu' tardi membri della band suoneranno nella Punk band degli STAB mentre Stiv si unira' con gli Skrewdriver!!!!!!!!!!! Ma il 23-1-92 ,in una magica notte, Steno ritorna sul palco ed accompagnato dagli Stab da vita ad un pirotecnico concerto, immortalato sul CD “Live alla morara” edito dalla Twins Records nel 1994.
Il disco contine una manciata dei migliori pezzi dei Nabat piu’ una cover di “If the kids are united” degli Sham 69.
Nel 1995 i Nabat si riformano in occasione del “TIZIANO ANSALDI BENEFIT TOUR” , da loro stessi organizzato per raccogliere fondi in favore della mamma del loro mitico ex manager scomparso nel 1994. La band si esibisce insieme ai bolognesi Ghetto 84 e ai Klasse Kriminale , prima al Leoncavallo di Milano e poi al Livello 57 di Bologna. Tra il dicembre 95 e gennaio 96 viene registrato “Nati per niente” CD pubblicato su Banda Bonnot. Dodici pezzi, più una bonus track, potenti e diretti che sono una ulteriore conferma delle capacità della band, diventata nel frattempo un quintetto. Il disco è dedicato a IQBAL MASIH leader dei bambini pakistani, morto assassinato.
L'album è stato registrato con la seguente formazione:
Steno - voce, Riccardo - chitarra, Romano - chitarra, Abbondante - basso e Toppi - batteria.
Agli inizi del 1997 Riccardo Pedrini (chitarrista dei Nabat) ha pubblicato il libro "Skinehaed: lo stile della strada" edito da Castelvecchi.
Il libro, molto bello, ripercorre la storia del movimento Skinhead, dalle origini fino ad oggi, con particolare riferimento alla scena italiana, e contiene una vasta e dettagliata bibliografia e discografia, nonchè un elenco di siti internet e di fanzine Skinhead.
Sempre Riccardo nell' estate 1998 a pubblicato "Ordigni", saggio sulla scena punk bolognese dei primi anni ottanta.
Nel settembre 1998 e' uscito per la Potere Records uno splendido bootleg intitolato "Campane a Stormo" che raccoglie le registrazioni apparse sul primo demo tape della band, due live ed alcuni pezzi tratti principalmente dal primo LP del gruppo bolognese.
Purtroppo la band si e' definitivamente sciolta nell' Ottobre 98 alla vigilia di un concerto in terra vicentina in occasione del 1 Festival SHARP Tre Venezie durante il quale pero' Steno a improvvisato un mini-gig accompagnato dai alcuni membri dei Los Fastidios.



KLASSE KRIMINALE
Savona, primavera 1985, Marco Balestrino e altri tre ragazzi fondano i Klasse Kriminale quando il Punk, in Italia, è già dato per morto. Per fortuna non era (e ancora non è) così, il movimento è ancora vivo e vegeto e quella dei Klasse Kriminale è destinata a diventare una lunga e produttiva “carriera”.
Anche se bisogna aspettare il 1988, e vari cambi di line-up, perché venga registrato il primo singolo "Costruito In Italia", che riscuote decisi consensi e fissa quella che sarà il sound caratteristico della band, una potente miscela di Oi!-Punk, Ska-Reggae, su cui si innestano testi crudi, impegnati, che parlano di lavoro, disoccupazione, droga, mass-media, vita di strada, conflitti generazionali. La miscela è originale ma i punti di riferimento si sentono chiari e forti e trattandosi di The Clash, Sham 69, Angelic Upstarts e The Specials non è poi un male.
Nel 1989 i Klasse Kriminale registrano il loro primo album "Ci Incontreremo Ancora Un Giorno", negli studi già utilizzati dai mitici Nabat, ma la loro attività principale restano i concerti, in compagnia di The Stab, Rappresaglia, Ghetto 84, Nabat, Red Alert, Lurkers, Angelic Upstarts, Sham 69, Red London, Public Toys, Agnostic Front, Snap Her, Stage Bottles, Ska-P, GBH, come supporto ai tour italiani di US Bombs e Dropkick Murphys, Business e Toasters o in giro per Gran Bretagna, Germania, Francia, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Belgio e Canada. L’importante è che ci sia uno scopo, che si tratti di un’ iniziativa anti-razzista o anti-fascista Marco Balestrino e la band, che ruota sempre più intorno a lui, non mancano mai.
E poi ci sono i dischi, tanti in questi venti anni, tutti con una storia alle spalle, fatta di fatica, di sudore, di impegno, di entusiasmo, troppo lunga per essere raccontata, ma invece almeno i titoli vanno ricordati: "Faccia A Faccia" (per Division Dada la sotto-etichetta della New Rose, di Francois, ex Berurier Noir, con la grafica di Alteau), "I Ragazzi Sono Innocenti", "1985-95 Orgoglio Per Le Tue Passioni", "Live/Vivo" (prodotti da Paul Chain), "Mind Invaders" (in collaborazione con Luther Blissett), "Electric Caravanas" (con la produzione di Jimmy "Sham 69" Pursey), "I Know This Boy" (con la partecipazione dello scrittore Riccardo Pedrini, ex-Nabat), "Stai Vivendo O Stai Sopravvivendo?" e "Welcome To Genoa", a cui si aggiungono numerose raccolte dedicate ai fans dell’Argentina, del Brasile e di tutta Europa, tra cui una per l’etichetta inglese Captain Oi!, che fa diventare i KK l’unica band non anglofona in catalogo.
Come se non bastasse Marco, in questi anni, trova anche il tempo di curare l’uscita di compilazioni ("Stay Punk!", "Oi! It’s A World League", "Oi! Against Silvio", "Oi! Against Racism"...), la produzione di band esordienti, e la fanzine Kriminal Class. Tanti modi diversi per stare vicino a quei Kids che l’hanno fatto diventare un punto di riferimento per la scena italiana.

[Modificato da janie.jones 08/12/2006 18.54]









09/12/2006 16:39
 
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GESTA BELLICA
I Gesta Bellica sono un gruppo musicale italiano di estrema destra ( [SM=g27836] ), originario di Vicenza, formatosi agli inizi del 1991.
Si sono sciolti definitivamente nel 2006. ( [SM=g27813] )

E´ all´inizio del 1991 che a Vicenza, negli ambienti del movimento politico di estrema destra Veneto Fronte Skinheads ( [SM=g27836] ), Alessandro (chitarra), Fabrizio (batteria), Ubi (basso) e Pippo (voce) formano il gruppo dei Gesta Bellica.

Il 31 agosto del 1992, la band esordisce al concerto del campo Ritorno a Camelot insieme ai Peggior Amico, Verde Bianco Rosso, ecc…, di cui uscirà poco dopo una cassetta live. In seguito produrranno il loro demo-tape intitolato "Gesta Bellica".

Nel 1994 Ubi e Pippo lasciano il gruppo e al loro posto entrano Andron come bassista e Toast come batterista, mentre Fabrizio diventa la voce.

Nel 1995 per la vicentina Tuono Records, registrano un miniCD a mezzo con i Corona Ferrea dal titolo Tempi Moderni e, sempre per la Tuono, partecipano alla compilazione, che esce a ottobre, dal titolo Fuori dal Ghetto.

Nel 1997 esce il loro primo CD Usque ad Inferos (Tuono Records) ed il gruppo partecipa anche una compilazione internazionale.

Nel 1999 esce sempre per la Tuono Records il CD Iterum Rudit Leo. E´ questo l´album che consacra il successo della band vicentina, con i pezzi 8 settembre ´43 e No pasaran ( [SM=g27836] )

Nel 2004 esce sempre per la Tuono Rec. Ius Primae lineae ( [SM=g27836] ), in cui e´ inserita la canzone dedicata all´ex ufficiale nazista Erick Priebke Il capitano. [SM=g27811]

Nel 2005 partecipano con un pezzo alla compilation della Skinhouse Prod. I ragazzi sono colpevoli vol.2.

Durante l'esibizione a "Ritorno a Camelot" del 2006 la band annuncia lo scioglimento. ( [SM=g27813] )





12/01/2007 18:25
 
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modena city ramblers
I Modena City Ramblers nascono nel 1991 come gruppo di folk irlandese, innamorati della musica e delle tradizioni dell’isola di Smeraldo. Dopo lo storico demotape COMBAT FOLK (MCR, 1993), nel 1994 esce per l’indipendente romana Helter Skelter il primo album, RIPORTANDO TUTTO A CASA. E' un disco con cui i Ramblers rivendicano la loro identità meticcia, fatta di Irlanda ed Emilia, dei racconti sulla Resistenza e gli anni Settanta, di viaggi e di lotte. L'album funziona, e, in pochi mesi, stringono rapporti con un management (Mescal) e una major discografica (PolyGram). Il disco viene quindi ripubblicato nello stesso anno dalla Blackout/Mercury.
Nel 1996 arriva nei negozi un secondo album, LA GRANDE FAMIGLIA (Black Out/ Mercury). Il suono comincia a cambiare, e il folk (fin dall'inizio suonato con attitudine punk) a indurirsi, contaminandosi col rock.
E’ dell’estate di quell’anno l’apprezzato tour fatto in compagnia del folletto Paolo Rossi, in un inedito connubio tra musica, satira e comicità resistente.
Nel 1997 esce il terzo album, TERRA E LIBERTA’ (Black Out/ Mercury), fortemente influenzato dai viaggi nel continente latino-americano e dalla lettura dei suoi scrittori, alcuni dei quali diventano interlocutori e amici del gruppo (Luis Sepúlveda, Daniel Chavarria, Paco Ignacio Taibo II). Il combat folk si arricchisce di suggestioni letterarie e suoni più elettrici, allarga gli orizzonti senza perdere la sua identità, diventa patchanka celtica.
Nel frattempo cresce il consenso intorno al gruppo come live-band. I Modena City Ramblers saltano, suonano forte, si divertono e fanno divertire: riempiono i locali e le piazze di tutta Italia, e attirano più pubblico dei tour di molti artisti blasonati.
Nel 1998, dopo tre dischi e cinquecento concerti, i Modena City tornano alle origini: realizzano RACCOLTI (Black Out/ Mercury), album dal vivo registrato in un pub irlandese d'Emilia, completamente acustico e con un pubblico composto da pochi amici.
Dopo un prestigioso tour nei teatri, il gruppo si reca in Irlanda per la pre-produzione di un nuovo album di studio, FUORI CAMPO (Black Out/ Universal), ultimato come i precedenti all’Esagono di Rubiera (RE) e pubblicato nel 1999, con il nuovo marchio Universal che si sostituisce al vecchio PolyGram. Il disco fotografa la vicenda artistica del gruppo nella sua completezza: nelle canzoni convivono l’amore per l’Irlanda e i suoni del folk irlandese degli esordi, le suggestioni africane e balcaniche, il recupero della tradizione popolare italiana e la nuova ricerca espressiva più “contaminata”.
Poco dopo viene pubblicata la prima vera biografia dei
Ramblers, Combat Folk: l’Italia ai tempi dei Modena City Ramblers, scritta da Paolo Ferrari e Paolo Verri (Giunti editore).
Con l’uscita di FUORI CAMPO la band ritorna ad una intensa attività live. Dalle piazze italiane ai piccoli club delle Asturie e della Catalogna, dall’Albania delle esibizioni di solidarietà al Sudafrica di importanti festival, i Modena City Ramblers macinano chilometri, impegni ed esperienze e definiscono la loro vocazione meticcia proponendosi come fenomeno non solo italiano. FUORI CAMPO viene pubblicato anche in Giappone, per la locale consociata Universal. Divergenze artistiche e scelte personali portano intanto due componenti storici della band, Giovanni Rubbiani e Alberto Cottica, all’abbandono. I rimanenti membri, assieme al loro produttore Kaba Cavazzuti, da sempre dietro alla consolle per i dischi del gruppo ed ora integrato nella formazione, continuano con i concerti e iniziano a lavorare sul materiale per un futuro disco. Nel contempo, il cantante Cisco Bellotti realizza con Kaba la produzione dell’album d’esordio di un gruppo da sempre affine ed amico, gli aretini “La Casa del Vento”: NOVECENTO esce nel febbraio 2001 per l’etichetta Mescal.
Dopo un’importante e da tempo desiderata tournée “resistente” fatta assieme ai Gang col nome di “Gang City Ramblers” e una intensa serie di concerti estivi, i M.C.R. vanno in quel di Napoli per intraprendere le registrazioni del nuovo album. Per la prima volta, la regia viene affidata ad un produttore esterno: Enzo “Soulfingers” Rizzo, scelto per i lavori fatti, tra gli altri, con i Mano Negra, Les Negresses Vertes e Manu Chao.
RADIO REBELDE esce nel febbraio 2002 per la Blackout/Universal e si presenta come il risultato di un’evoluzione della patchanka celtica in cui il punk, l’elettronica, il dub, il reggae, i ritmi africani, latini e balcanici sono ormai innestati nella originaria componente folk e popolare in maniera del tutto personale e innovativa, definendo un nuovo “Ramblers-style”.
Accanto all’attività live e in sala d’incisione, sulla scia dell’esperienza produttiva di Cisco con “La Casa del Vento”, il gruppo inaugura anche una propria etichetta di produzione discografica: la Modena City Records. Il marchio vuole proporsi come veicolo per le produzioni artistiche e i progetti paralleli. Il primo titolo pubblicato dalla MCRecords nel febbraio del 2002 è PAZIENZA SANTA dei “Paulem”, folk band dell’appennino modenese.
La tournée di RADIO REBELDE dura un anno e mezzo: i Ramblers sono senza dubbio una delle più importanti realtà live. Il vecchio compagno Giovanni Rubbiani si riunisce temporaneamente per lo spezzone del tour invernale che precede il viaggio in Chiapas e Guatemala dell’inizio 2003. Nella formazione è nel frattempo entrato Luca Giacometti, soprannominato per le sue origini genovesi “Gabibbo”, esperto di plettri e cultura irlandese e conoscenza di vecchia data dei Ramblers.
Nel giugno 2003, viene pubblicato il mini-cd MODENA CITY REMIX (Black Out/ Mercury), un progetto per i dancefloor con remix di artisti e dj particolarmente apprezzati per il loro stile dai Ramblers, tra gli altri i britannici Transglobal Underground e i Feel Good Productions.
Sul finire dell’anno comincia anche la collaborazione tra i Modena City Ramblers e la Coop, che li sceglie quali testimonial per la sua campagna di solidarietà internazionale “Acqua per la Pace”. In esclusiva per i supermercati della cooperativa nel dicembre 2003 viene pubblicato il mini-cd GOCCE, i cui proventi vanno a finanziare i progetti sostenuti dalla campagna.
¡VIVA LA VIDA, MUERA LA MUERTE! esce nel gennaio 2004, sempre per la Blackout-Mercury/Universal. I temi e le sonorità di RADIO REBELDE trovano qui ulteriore sviluppo e maturazione, grazie all’attenta e creativa produzione di Max Casacci, alla cabina di regia nelle registrazioni del disco, protrattesi per tutto l’autunno 2003 tra Rubiera (un ritorno allo studio Esagono) e Città di Castello. I Ramblers riprendono quindi i concerti con il nuovo tour che vede la band confermarsi in oltre cento date in Italia e proporsi in prestigiosi club e festivals europei. Alla fisarmonica e all’organetto, entra nella line up della band il piemontese Daniele Contardo.
Nel 2004 è pubblicato anche il primo DVD ufficiale dei Modena City Ramblers: “CLAN BANLIEUE: 1992-2004, la Grande Famiglia in Movimento” (Universal/ Black Out).
Il DVD viene accolto benissimo dal pubblico e sale ai primi posti nelle vendite italiane di questo tipo di supporto.
Già alla fine dell’anno, e a tour appena concluso, i Ramblers si rimettono all’opera su di un progetto discografico: l’idea è quella di lavorare a un “corpus” di canzoni, tra alcune del repertorio della band e altre appartenenti ad autori diversi, che siano accomunate dal loro essere legate o ispirate al periodo della Seconda Guerra Mondiale e della Lotta di Resistenza. La produzione del disco, seguita direttamente dai Ramblers, si svolge nei primi mesi del 2005, ancora una volta presso lo studio Esagono di Rubiera, e vede, tra le tantissime collaborazioni di prestigio, i nostri impegnati al fianco di Francesco Guccini nella riproposizione della sua “Auschwitz”, Moni Ovadia nella canzone di Italo Calvino “Oltre il ponte”, Piero Pelù ne “La guerra di Piero” di Fabrizio de Andrè, Goran Bregovic e la Wedding and Funeral Band in “Bella ciao” e il britannico Billy Bragg in “All you fascists”, scritta da Woody Guthrie.
Durante due pause nelle sessions di registrazione i Ramblers trovano il tempo per due importanti viaggi e concerti all’estero: in Polonia, ad Auschwitz, al seguito dei “Treni della Memoria” organizzati dalle scuole italiane, e in Palestina, dove la collaborazione come testimonial di “Acqua per la Pace” con Coop permette al gruppo di inaugurare una cisterna dell’acqua presso un villaggio palestinese, realizzata grazie all’intero ricavato delle vendite di “GOCCE”, nonché di una piccola parte di “¡VIVA LA VIDA!” e del tour seguente.
Mentre quest’ultimo cd diventa disco d’oro, superando le quarantamila copie vendute, “APPUNTI PARTIGIANI” (Mescal) viene ultimato per essere pubblicato nell’aprile 2005, in coincidenza con il sessantesimo anniversario della Liberazione. Il disco è il primo nella storia dei Ramblers ad essere licenziato dalla Mescal, fino a questo momento management e booking agency del gruppo, seppure con distribuzione Universal. Come già i precedenti due cd, “RADIO REBELDE” e “¡VIVA LA VIDA!”, l’album arriva nella Top Ten italiana di vendite discografiche, diventa disco d’oro e si accompagna ad un ennesimo tour che porta la band in giro per l’Italia. Due fisarmonicisti sostituiscono Contardo in questi concerti: Franco Borghi, vecchia conoscenza reggiana, e Massimiliano Fabianelli, un altro musicista aretino dopo Francesco Moneti (e Massimo Giuntini, a più riprese collaboratore della band).
Nel frattempo, la canzone “Ebano”, contenuta nel precedente cd, vince il prestigioso premio “Amnesty – Voci per la libertà”, come esempio di brano impegnato nell’ambito delle tematiche dei diritti umani.
Nel novembre 2005, in un momento di pausa nell’attività del gruppo, arriva la notizia dell’abbandono del cantante Stefano “Cisco” Bellotti.
Dopo quattordici anni di concerti, dischi, viaggi e incredibili soddisfazioni, Cisco compie una scelta che, come in precedenza per altri “abbandoni”, è figlia soprattutto di esigenze personali ed è compiuta con grande serenità e senza dissapori.
Il gruppo decide di mettersi subito al lavoro per tornare al più presto a suonare dal vivo e per cominciare a preparare un nuovo disco. Per il posto di cantante si decide di tornare, dopo tanti anni, ad una originale formazione a doppio vocalist, come agli inizi.
I nuovi elementi provengono direttamente dalla cerchia di amici e compagni di strada dei Ramblers: il sassolese Davide “Dudu” Morandi, cantante dei “Mocogno Rovers”, fin dagli esordi dei Ramblers amico e ospite alla voce in varie occasioni (compare addirittura nella copertina di “GRANDE FAMIGLIA”) e, prima presenza femminile stabile nei Ramblers dalla pubblicazione di un disco, la cantante e attrice correggese Betty Vezzani, già impegnata sia in varie collaborazioni musicali di matrice folk e rock - tra le altre lo spettacolo “Le Ceneri di Gramsci”, scritto da Pier Paolo Pasolini e musicato da Giovanna Marini - che, sul set, con Guido Chiesa nel film-documentario “Partigiani”.
Da marzo 2006 i Ramblers riprendono i concerti, dapprima nei club, poi nelle piazze italiane.
Tra gli eventi più prestigiosi, l’ennesima apparizione sul palco del concertone romano del Primo Maggio, dove, probabilmente per l’ultima volta (e dopo non averla eseguita per molti anni), cantano “Contessa” di P. Pietrangeli modificandone alcune strofe. La risposta del pubblico in questo nuovo tour è, come sempre, calorosa ed entusiasta e, convinti che nonostante l’abbandono di una figura importante quale quella del frontman il gruppo conservi inalterato il legame con i propri fans, i Ramblers cominciano a lavorare al nuovo disco.
La preproduzione avviene a Rubiera nel maggio di quest’anno: i Ramblers scelgono di lavorare su un consistente numero di canzoni scritte in gran parte tra la conclusione del tour di APPUNTI PARTIGIANI e l’ultimo mese.
Per la produzione artistica del disco la band chiama il noto produttore inglese Peter Walsh, già collaboratore, tra gli altri, di Simple Minds e Peter Gabriel.
Le sessions di registrazione si protraggono per il mese di giugno e l’inizio di luglio, quindi un breve tour estivo si frappone alla chiusura delle stesse ed ai mixaggi, che avvengono tra la fine di agosto e la metà del mese di settembre.
Tutto il lavoro viene realizzato presso l’ormai classica “casa” dello studio Esagono di Rubiera (RE). Tra gli ospiti di rilievo che partecipano alle registrazioni, Luca “Rude” Lombardo, rapper bolognese trapiantato a Barcellona, già collaboratore di Manu Chao, Fermin Muguruza e La Kinky Beat, la brass band macedone Original Kocani Orkestar e il famoso musicista irlandese Terry Woods, membro dei Pogues nonché tra i principali esponenti del folk irlandese dagli anni ’70 ad oggi.
Non appena terminate le sessions del nuovo disco, la band rimane in studio, proprio con Terry Woods, per iniziare le registrazioni di un futuro lavoro “internazionale”. Coprodotto dal musicista irlandese, il progetto - che per ora ha come titolo “TUNES FROM THE BUNKER” – prevede riletture di classici del repertorio MCR, alcuni dei quali trasposti in inglese, altri in parte “convertiti” allo spagnolo, più la registrazione di alcune nuove canzoni che andranno a comporre un disco pensato e proposto per il mercato straniero.
Le sessions di registrazione si prolungano per due settimane e vedranno poi un’ulteriore puntata nel gennaio del prossimo anno.
“DOPO IL LUNGO INVERNO” (Mescal), è pubblicato nel novembre 2006 e dalla fine dello stesso mese il gruppo parte con il nuovo tour di supporto al disco.

I MODENA CITY RAMBLERS SONO ATTUALMENTE:
Arcangelo “Kaba” Cavazzuti: tastiere, batteria, percussioni, chitarra
Franco D'Aniello: tin whistle, flauto, tromba
Massimiliano Fabianelli: fisarmonica, pianoforte, tromba
Massimo “Ice” Ghiacci: basso, chitarra
Luca “Gabibbo” Giacometti: bouzouki, mandolino, banjo, chitarra
Francesco “Fry” Moneti: chitarra, violino, mandolino
Davide “Dudu” Morandi: voce
Betty Vezzani: voce
Roberto Zeno: batteria, percussioni, tastiere, mandolino









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kurnalcool
I Kurnalcool nascono nel 1986 e nel giro di pochi mesi riescono ad imporsi all'attenzione del pubblico locale sia per la musica suonata che per i temi trattati nelle loro canzoni.
I Kurnalcool sono gli inventori del "VI' METAL" cioè hard rock con testi che raccontano storielline alcoliche capitate ai componenti del gruppo ed ai loro amici usando un linguaggio giovanile "corrente" che quindi comprende anche espressioni colorite.
Per questo motivo i kurnalcool col passare del tempo diventano nelle Marche una vera e propria cult band osannata dai loro numerosi fans ma anche abbastanza denigrata ed ostacolata da una certa parte dell'opinione pubblica benpensante e della stampa.
In realtà ascoltando bene i testi dei Kurnalcool si può trovare si disagio giovanile ma soprattutto tanta voglia di vivere, di divertirsi e di far divertire con le loro canzoni deliranti tutti coloro che perdono tempo ad ascoltarli.
Tra il 1986 ed 1990 il gruppo incide 4 demo tapes, in ordine:
Bumba atomika (1986)
Vattafadantelvì (1987)
Svinavyl (1988)
Slongame la biscia (1989)
questi nastri vengono recensiti positivamente da riviste specializzate ed i kurnalcool arrivano a duplicare 600 copie di quei nastri e ad essere cercati per serate anche oltre provincia tra le quali Topsy club a Livorno e pussycat a Rimini.
Nel 1991 il gruppo si scioglie ma 6 anni dopo pressati dalle richieste dei vecchi fans ormai cresciuti e dai loro fratelli minori, ma soprattutto sorpresi dal fatto che il nome kurnalcool era tutt'altro che morto i 7 curnacchioni decidono di ritornare sulla scena per alcune serate commemorative.
Il successo di queste date è a dir poco travolgente 3000 persone complessivamente per assistere al loro ritorno.
I ragazzi sentono intorno a loro di nuovo il calore degli inizi e decidono di continuare.
Di li a poco arriva loro la proposta per l'incisione di un cd che si concretizza dopo pochi mesi con l'uscita di BUMBA ATOMIKA il loro primo lavoro ufficiale che in 8 mesi vende 1000 copie solo nelle Marche e senza uno straccio di distribuzione.
I kurnalcool sono invitati come ospiti speciali a un concerto pro terremotati organizzato dall'istituto tecnico di Ancona davanti a 3500 kids di tutta la provincia presenti sul posto ed a qualche centinaia collegati in video conferenza da Fabriano.
A due anni di distanza dal primo cd le kurnakkie ci riprovano con un nuovo lavoro STAND BY VI'
musicalmente piu' vario del suo predecessore ma ugualmente tagliente e provocante.
STAND BY VI' è una bomba, e espande ancora di più la "kurnalcoolite nelle Marche e un pò in tutta Italia.
Il "Vitel Turnè" a supporto del disco è un bel successo e le kurnakkie arrivano a suonare finalmente anche a Roma.
Da ricordare anche la serata in Piazza Pertini (Ancona) nel Maggio 2000 davanti a 4000 persone.
Il 27 Dicembre 1999 per salutare il millennio i Kurna organizzano una mega serata al Palasport di Falconara
dove in collaborazione della Sbandabocciò, danno vita ad un concerto memorabile registrato dalle sapienti
mani del Castrio.
Queste registrazioni vengono pubblicate un anno dopo sotto forma di cd live: Il terzo lavoro dei Cavalieri
della Bumba è appunto un live e si intitola "FUCKIN' GIUBILIVE"
Il 2001 si apre con una novità: Per la prima volta le kurnakkie si esibiscono in una serata "acustica".
Dopo un 2002 altalenante, il gruppo perde stimoli e idee, gli interessi cambiano e quindi si arriva alla
inevitabile scissione con la dipartita di tutta la sezione ritmica.
Ecco quindi i superstiti pronti a raccogliere i cocci e a ripartire con rinnovato entusiasmo.....
Entrano forze nuove e motivate che ridanno grinta anche ai reduci dell'86 che rilanciano la sfida al successo....
Dopo una estate passata a collaudare la band e a ritoccare il nuovo lavoro il 10 Ottobre esce finalmente
TAKKI A BEVE, quarto lavoro della instancabile band falconarese.......
IL PASSATO E' PASSATO..........LE SBORNIE CONTINUANO......

Le chitarre fumanti, le due batterie, il loro modo di proporsi sul palco e i testi divertenti e "coloriti"hanno fatto dei Kurnalcool un gruppo da amare o da odiare……ma sicuramente da vedere dal vivo !!!
I Kurnalcool sono veramente pronti alla sfida del nuovo millennio!!!!!!!!
Le kurnakkie attualmente sono:
RICKY TYGER BIGWHITE: voce
JOHN BIG GEORGE: voce
MICHAEL TRILLING: chitarre
MARK NARDIELLO: chitarre
ANDREAS KLEINESTEIN: chitarra basso
MAX VORTEX : batteria
J.J. GUASTO: batteria

[Modificato da janie.jones 27/02/2007 16.44]









09/02/2007 20:27
 
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germs
I Germs (Los Angeles, 1977-1980) hanno avuto la funzione storica di portare in America il punk dei londinesi Sex Pistols, il quale così potrà trasformarsi nell'hardcore californiano, genere che solo in quel momento ci si rese conto coincidere con la musica già inventata nel 1975 dai newyorkesi Ramones, musica tuttavia riproposta ora in chiave tragica e "heavy" e non più comica e pop.

Non solo. Facendo dipendere la musica dall'urgenza espressiva e non viceversa, i Germs furono un gruppo apparentemente mono-stilistico, in realtà praticante una pluralità di stili diversi e talora opposti: punk, hardcore, dark, new wave, grunge i filoni perseguiti. Filoni ognuno dei quali hanno contribuito, spesso in modo determinante, a brevettare.

Nel 1977 Los Angeles era attraversata da hardrocker di terza o quarta generazione (dopo Deep Purple, Aerosmith e AC/DC era la volta dei Van Halen). I Germs cambiarono per sempre il volto della città, che divenne la patria, l'unica vera patria, dell'hardcore prima e dello speed e thrash metal dopo. Ciò ebbe un'importanza ancor più che musicale, sociale: il punk, il nichilista, l'asociale, il rassegnato (piuttosto che il ribelle o eccentrico di rocknrolliana memoria) divenne una figura molto presente nell'immaginario collettivo di un'intera generazione di adolescenti; immaginario che peraltro modificherà modi, ma non il concetto dell'apatico nichilismo, con le generazioni successive.

Propriamente l'America, anche in virtù di simboli come i Germs, non vedrà mai punk, secondo l'estetica inglese: l'hardcore è un fenomeno opposto al punk quanto l'esterno all'interno; riguarda più l'interiorità che la forma, la riflessione che il fisico, più la natura che la storia. Il punk è anarchico, l'hardcore anarca. Il punk giunge al nichilismo, l'hardcore lo dà per presupposto. Il punk giunge al suicidio; l'hardcore parte dal post-mortem, dall'impotenza innata. Ciò nel 1977 era ancora in nuce, e non sarà manifesto prima della terza generazione hardcore, quella di metà anni 80, quella degli Squirrel Bait, quella che aprirà definitivamente l'epoca post-hardcore. Testimonianza ne è la somma di contraddizioni e incertezze che caratterizza il fenomeno Germs; contraddizioni e incertezze che tuttavia non impediranno loro di istituzionalizzare per primi il genere hardcore.

Naturalmente a Los Angeles c'era già nell'inoltrata metà degli anni 70 un humus punk (soprattutto ispirato, oltre che ai Ramones, agli inglesi Damned): gli Zeros (formati nel '76), gli Weirdos, ma soprattutto i Fear, nonché i vari club della città (come l'Whisky), ne sono una testimonianza. Inoltre, sparse per l'America c'erano sacche di musica estrema: come i Misfits nel New Jersey. I Germs non nacquero dal nulla: tuttavia furono i primi a concretizzare in un album programmatico, pur con tutte le sue contraddizioni, il genere hardcore (il che vale tanto per i Fear quanto per i Misfits, gruppi nati prima o insieme ai Germs, ma riusciti a pubblicare un'opera loro solo a inizio 80; gruppi questi, inoltre, che proponevano uno straordinario hardcore alternativo quando questo non era di fatto ancora nato).

Già la vita e l'approccio alla vita dei ragazzi che formeranno i Germs sono significativi e validi per un'intera generazione con la cui eredità si sono dovute confrontare tutte le altre generazioni sino ad oggi. Jan Paul Beahm (poi Darby Crash) e George Ruthen (poi Pat Smear) erano (come tutti gli hardcorer avvenire) due collegiali (classe 1958) figli della media borghesia (non come i punk inglesi, figli della classe operaia, quella stessa soggetto e referente dei loro brani). Questo è fondamentale per comprendere le differenze sociali e quindi esperenziali e quindi artistiche tra punk e hardcore.

Nei Germs, e poi nell'hardcore, non c'è alcuna pretesa sociale, alcuna voglia di riscatto, alcun disagio che non sia squisitamente psicologico e auto-inferto: esperienze di vita estreme hanno caratterizzato tanto i punk quanto gli hardcore; il punto è che mentre i primi reagirono con l'estroversione, i secondi con il suo opposto, l'introversione.

Per afferrare questo scatenamento totale di tutte le forze simboliche, l'uomo deve essere già giunto al culmine dell'alienazione di sé che in quelle forze vuole esprimersi simbolicamente.

Darby Crash, in qualsiasi epoca fosse nato, qualsiasi cosa avesse passato, sarebbe stato il medesimo: il suo problema, il suo punto, era connaturato alla sua personalità, era la personalità stessa: al di là del tempo e di ogni altro condizionamento, egli era una forza della natura. Soddisfece tale forza con l'omosessualità, l'alcolismo e l'eroinomania. Egli era tanto più fragile e delicato quanto più irriducibilmente e patologicamente avverso all'adeguarsi non solo a qualsiasi stato precostituito, ma a qualsiasi stato in assoluto. Perennemente insoddisfatto, in disagio, sulle spine. Ciò lo conduceva, più che alla nevrosi, alla depressione e a un fatale sgomento. Si trattava, per prolungare o finalizzare in qualche sparuto modo l'esistenza, di trovare una forma espressiva adeguata a tale retaggio; la sua fortuna, la sua condanna a morte, fu di trovare tale forma espressiva diciottenne, ai primi del '77, in uno show televisivo: davano i Sex Pistols.

L'amico fraterno Pat Smear accompagnò con una chitarra scordata e sfinita e analfabeta la voce di Crash, prototipo di ogni voce hardcore, cioè (all'interno del non-cantare) meno cantilenante di quella punk di Rotten, meno discorsiva, e più sgolata, più profonda, meno autodistruttiva, già trapassata.

Una giovane ragazza bionda, tra il vissuto e l'ostentato, all'inizio vestita come una punkette londinese, ben presto antesignana della moda dark, Lorna Doom, suonando il basso nei Germs, rivoluzionerà su larga scala l'uso dello strumento; il suo basso, veloce, potente, rimbombante, molto più che semplice strumento ritmico, bensì strumento atmosferico, costituirà il punto di riferimento tanto per l'hardcore (velocità), tanto per il dark/new-wave (atmosfera depressa), tanto per il metal (potenza).

Don Bolles, alla batteria (della quale esasperò l'uso del charleston e dei piatti in genere), compì il definitivo passaggio dal rock n'roll revival dei New York Dolls, dal punk (molto più blando) dei Sex Pistols, all'hardcore. C'erano già arrivati i Ramones, per quanto riguardava la velocità: mancava loro però potenza e sistematicità.

Darby Crash, tra foto e canzoni, ci ha lasciato tutti gli elementi per ricostruire il suo complicato e indeciso percorso artistico (quello esistenziale, il nichilismo e l'autodistruzione, era invece di quanto più spietatamente saldo): d'altra parte gli toccò fondare un nuovo genere (l'hardcore) proprio nel momento in cui aveva sconvolto il mondo intero il genere più nuovo di tutti: il punk. Ossia, è come se non gli fosse riuscito o se gli fosse parso stretto, già cosa istituzionalizzata, fare punk. Inoltre il punk, per quanto esasperandola, era rimasto ancor all'interno della forma-canzone. L'hardcore, per la lunghezza dei brani, la sovrapposizione di brani in miniatura all'interno di un brano altrettanto in miniatura, la melodia o il ritornello non cercati ma investiti qua e là come derivati e testi praticamente in prosa con tante parole da occupare un intero album pop costipate in mezzo minuto, faceva di tutto per rinnegare anche la forma-canzone. Ciò che i Germs fecero può essere considerato miracoloso: doveva essere l'ultima punk band inglese, divennero la prima band hardcore americana. E seguendo, per lo più, l'istinto, non programmaticamente, come i Sex Pistols. Dopo i Germs, infatti, saranno necessari i vari Circle Jerks e Dri per stabilire una volta per tutte i confini del genere. Dopo i Sex Pistols non sarebbe stata necessaria alcun'altra band punk.

I Ramones sono i padri dei Sex Pistols ma non del punk; i Sex Pistols sono i padri dei Germs ma non dell'hardcore. Le innovazione dei Ramones (oltre al look e ai testi) furono due: canzoni brevissime (1 minuto) e chitarre rifuggenti ogni assolo, confinate in un accompagnamento violentissimo. I Sex Pistols continuarono nel sottotono della sezione ritmica, ma rispetto ai Ramones aggiunsero, con Johnny Rotten, la voce sistematicamente più estrema sino ad allora (è la gola di Rotten a fare le canzoni dei Sex Pistols). Inoltre i Sex Pistols, con "Anarchy in the U.K.", dettero la canzone socialmente più importante della musica rock: per la prima volta dopo molte migliaia di anni l'uomo, il popolo, il pop, il punk, reclama la propria volontà autodistruttiva. Prima del '77 il fenomeno era limitato a singoli individui o cerchie comunque ristrette; dopo il '77 diverrà moda; negli anni 80 la natura da cui partire.

I Germs aggiunsero alla violenza della chitarra Ramones e a quella della voce di Rotten la prima sezione ritmica davvero e sistematicamente violenta e potente della storia del rock. In termini di potenza, se i Ramones valgono 1 (la chitarra), come i Sex Pistols (la voce), i Germs - come l'hardcore: e per questo ne sono i padri - 4 (voce, chitarra, basso, batteria). I Germs, inoltre, compirono il passo dalla società o oggettività all'individuo o intimismo (da qui i testi che, come tutti quelli hardcore, non sono manifesti di alcunché, non sono che auto-crocifissioni).

Già dai testi, peraltro tra i pochi meritevoli di lettura all'interno dell'ambito rock (non sia comunque detto a svalutazione di tanti che volutamente usano testi banali per evidenziare il lato musicale), i Germs si distanziano abbastanza dai Sex Pistols. Prima cosa non sono contro: come tutto l'hardcore seguente, esso non è contro nessuno, non parla a nessuno; l'unico obiettivo è l'auto-riflessione, l'auto-immolarsi. Crash cerca di mettere ordine alla realtà che lo circonda creando questa: ossia non descrive cose accadute, ma cose che compirà. Ancora la natura prevale sulla storia. E forse la maledizione della generazione di Crash è proprio quella: di essere totalmente liberi di costruirsi, gestirsi il domani; è un totale che schiaccia, che immobilizza. Infine, a silloge, Crash accompagna tali promemoria per il domani con un aforisma, concetto al posto di immagine, deduttivo.

I Germs durarono meno di tre anni: allora esisteva appena il punk, dopo di loro vi saranno hardcore, dark e grunge. Anche esteriormente sembra abbiano profetizzato tali manifestazioni. Non si trova una fotografia di Crash in cui egli sia riconoscibile. Lo sguardo, almeno quello rimane; per il resto, e non si tratta solo di una questione di look ma anche di "aurea", passa dal moikano-punk, al dark in tutto e per tutto, all'ossimoricamente casual dell'hardcore, a vari tocchi glam, al nazi-fascista, al jeans strappato grunge; dal biondo al moro, dal grasso al magro. In questo caso, non si tratta di civetteria menzionare tali componenti, ma di un dovere necessario per comprendere a pieno tutto il profondo spirito che aleggia attorno a ogni brano dei Germs. Crash era insoddisfatto di ogni abito, come di ogni canzone, di ogni uomo come di ogni donna (e non solo a livello sessuale), di ogni droga come di se stesso, dell'Inghilterra (dove andrà nel 1980) come dell'America. Se non si fosse suicidato il 7 dicembre del 1980 con una spaventosa dose di eroina, i Germs, per tutte queste forze divergenti (e all'interno della medesima personalità!) sarebbero comunque finiti.

Il suicidio di Crash (a 22 anni) merita attenzione. Primo perché costituisce quasi un unicum all'interno dell'hardcore (genere di sopravvivenza e non di rottura, genere di riflessione e non di azione, genere di post-mortem e non di vita). Secondo perché chiarifica, nel modo in cui è avvenuto, quanto Crash, e l'hardcore tutto, siano alieni a nuocere a chicchessia. Il 7 dicembre 1980, Crash ottenne un prestito di 400 dollari (già questo dimostra quanto il mestiere di hardcorer e la celebrità raggiunta gli fruttassero...), che spese tutti in eroina. Si recò poi con una compagna in uno squallido appartamento. Dopo la dose abituale lasciò la ragazza sul letto e in bagno si iniettò la dose letale: prima di morire si avvicinò al muro, riuscendo solo a scrivere "Here lies Derby C.". Crash si uccise per quella sua natura, per quella natura che sarà di tutti gli hardcorer avvenire, ma che egli, primo esempio, non riuscì a interpretare pienamente, rimanendo preda della confusione e indecisione tra punk, hardcore e dark. Lui, l'estremo rassegnato, si uccise più per impotenza che per rassegnazione. Fu solo una coincidenza e non emulazione il fatto che Sid Vicious, nato un anno prima (nel '57), fosse morto l'anno precedente, anch'egli a 22 anni non compiuti.

I Germs esordirono nel luglio del '77 con il singolo "Forming/Sex Boy".

"Forming" (3:03) è una stranissima canzone degna di far parte della più alienata new wave americana, ma preludente al post-punk industriale, per l'incedere atonale e sottotono, ossessivamente reiterato, con basso e batteria soffocati nel background e una chitarra spaesata che tenta di sostenere come può la voce di un già trapassato ex-punk. Folk per chi ha raggiunto il lato più disumano del nucleare con il solo e personale tedio della vita.

"Sex Boy" (2:12) è un live letteralmente limbico; non si sente nulla: fruscii scosciati, flebili, esangui e basta. Lo sparuto pubblico, le sparute anime ignave circostanti, prevalgono inoltre sul poco che v'è d'intelligibile, di vitale. Oggettivamente, si tratta di una schifezza; un mistero è che possa essere stata registrata e pubblicata come esordio. Per il resto è un'ascesi metafisica.

I Germs iniziarono a fare musica con l'Ep Lexicon Devil, uscito nel maggio del 1978.

"Lexicon Devil" (2:03) è un punk alla Sex Pistols appena esasperato con alcuni picchi ritmici e vocalici dei primi Wire.

"Circle One" (1:46) continua nell'esasperazione del punk, già preludendo a un tradimento del genere con un suo sopravanzamento.

"No God" (1:52) si presenta con un paio di graffi chitarristici di cui si ricorderanno i Metallica in tanti loro epici intro semi-acustici; poi continua con un serie di fugaci trovate sorrette da un Crash urlante più della media punk e da un riff chitarristico particolarmente solido.

Nell'ottobre del 1979 uscì (GI) l'album più importante di tutto l'hardcore - a prescindere dal fatto che ne sia o no il migliore - e uno dei più importanti del rock tutto, se tali sono gli album che aprono un sotto-genere e arricchiscono e consentono la sopravvivenza così al genere rock. L'album fu prodotto (come sorta di madre spirituale o punto di riferimento esteriore e in parte antifrastico) da Joan Jett delle Runaways. Quindici brani, 28 minuti (con una media dunque di meno di due minuti a brano); più una progressione conclusiva da 9 minuti.

"What We Do Is Secret" (0:42) è la quintessenza dell'hardcore, già la sua brevità lo dichiara. La forza della composizione sta nella sezione ritmica: corposa e veloce come non si era mai sentita. Poi la strofa e il ritornello strascicato, sempre al massimo, di Crash che fin da qui sfodera un commovente retrogusto melodico.

"Communist Eyes" (2:13) a tratti mantiene la potenza e l'immediatezza del primo brano, a tratti è ancora accomunabile al punk del quale comunque rappresenterebbe (con un basso così sulfureo) il filone dark. D'altra parte, Crash per le trovate vocaliche (qui si dedica a lunghissimi e sconfortati ululati) e Smear per taluni preziosi ammicchi chitarristici (che pensano a toccare la corda della commozione quando non ci pensa Crash) paiono trascendere i generi: troppo hardcore per il punk e troppo punk per il dark.

"Land Of Treason" (2:09) è un sublime e puro hardcore: senza strofe, senza ritornelli, un continuo, lancinante blaterare che potrebbe durare, senza cali di tensione, all'infinito. Dopo brani del genere ci si rende conto quanto sprecato sia acquistare il 90% dei dischi che si acquistano.

"Richie Dagger's Crime" (1:55) è costruito su stacchetti punk (la voce di Crash qui è volutamente antiestetica: per rinfacciare, mettere a disagio, irridere, cose proprie del punk) intervallati da una più apprezzabile fuga tutta chitarra e voce, che prelude allo splendido country-hardcore dei Meat Puppets. Il pezzo, in quanto punk, è satirico: strano per Crash, dedito sempre a toni tragici o intimistici (e denotanti grande sensibilità).

"Strange Notes" (1:50) è hardcore e se sembra dozzinale si consideri che con questo dozzinale è stato inventato il genere. Il basso di Lorna Doom finisce per fare il canto (il lamento) come nella migliore tradizione anni 80, qui già pienamente esplicata.

"American Leather" (1:09) è sorretta dal semi-recitativo ad alta tensione di Crash, le cui parole (come forse il significato che vi sta dietro) risultano inintelligibili, ora troppo mangiate, ora troppo dilatate: contrariamente al punk, i cui manifesti risultano fin troppo comprensibili. L'hardcore è l'unico genere rock fatto per l'urlo: la gola è il quarto strumento di sofferenza. Il punk, sostanzialmente, non urla, non risulta intelligibile, non si lamenta (non piange), lamenta (protesta: da qui la necessità di farsi comprendere; necessità causata da un referente sociale o individuale, referente che la solitudine hardcore per lo più non ha).

"Lexicon Devil" (1:42) è il brano dell'Ep tradotto sapientemente dal punk all'hardcore (si vedano le lunghezze rispettive delle due versioni).

"Manimal" (2:11) dilata la formula hardcore in una composizione che sembrerebbe più estesa ma anche più tiepida fino a che non si giunga a un tocco geniale: l'urlo corale e indiano di Crash, letteralmente il corrispettivo del western-epico di Ennio Morricone. Gioiello di sensibilità e sentimento artistico, questo espediente vorrà dire molto per i Dead Kennedys e l'impostazione vocalica di Jello Biafra in particolare.

"Our Way" (1:57) è imperniato su un melodismo ossessivo e commovente; un hardcore al ralenty dove emerge la chitarra sincopata e scordata (già grunge) di Smear: dai Tsol ai Bad Religion, quando si tratterà di fare un hardcore particolarmente ispirato dal lirismo, questo sarà il punto di partenza più sincero e straziante.

"We Must Bleed" (3:01) è una sorta di precipizio deflagrante che per la possanza delle strutture, l'ossessività della batteria e del basso, potrebbe già essere speed-metal (ecco perché i Metallica sono l'opposto degli Iron Maiden...). Il finale, se possibile ancor più al fulmicotone, con la gola di Crash che finisce per soffocarsi, è l'unica spiegazione possibile degli eccessi dei Nirvana come "Territorial Pissings".

"Media Blitz" (1:30) è, dopo "What We Do Is Secret" e "Land Of Treason", ancora capolavoro. Questa volta siamo sul terreno dei Cheap Trick, che, messi a tempo hardcore forniscono il sound più nostalgico ed emozionante di tutti gli anni 80.

"The Other Newest One" (2:45) è il quinto capolavoro. Una ballata hardcore con la partecipazione alla quale sembra possibile sostenere ogni possibile disgrazia. "You're not the first you're not the last/ Another day another crash" recita Crash (che forse non involontariamente e più di una volta finisce per farsi mito negativo a se stesso): la frase è quanto ci resta, come testamento, del suo passaggio in questo mondo.

"Let's Pretend" (2:32) è pane (particolarmente velenoso del resto), ma quel pane su cui si è costruito un genere.

"Dragon Lady" (1:37): qui chitarra e voce sono loro le protagoniste, si rispondono in un piagnisteo di bellezza dedotta dall'aver vissuto infinite asprezze.

"The Slave" (1:02) ribadisce, utilmente, estremamente (ancora il ventaglio espressionistico di Crash alla voce) l'abc del genere.

"Shut Down" [Annihlation Man] (9:39) doveva essere il polpettone più o meno psichedelico più o meno progressive di turno. Invece dai tempi di "White Light/White Heat" non si sentiva niente del genere in termini rumore sinfonico finalizzato all'espressione. I Germs portano i Velvet Underground nell'epoca punk, portano il noise nel punk. I Germs inventano i Sonic Youth. Più particolarmente, dalle singole dissonanze (e violenze: Crash urla e basta) da questa composizione prenderanno ispirazione i gruppi grunge più estremi: Melvins, Mudhoney, Babes In Toyland. L'unica composizione del tempo paragonabile a questa suite anti-suite è "Sex bomb" dei Flipper. Il principio disumano di tutto il brano si trova poi sparso dal garage-industrial dei Chrome al blues-punk acido dei Birthday Party. Smear, nel non fare nessuna nota, dimostra di essere un fondamentale artefice dell'innovazione strumentale e, con gli altri strumentisti, che la solita zolfa per la quale i gruppi hardcore non saprebbero suonare vale solo per qualche frustrato e arido tecnico.

I Germs furono uno shock esperenziale per tutti quei quattro ragazzi. I Germs non erano comandati da nessuno. Crash aveva al più una superiorità spirituale (o semplicemente riusciva ad articolare ciò che gli altri tenevano dentro). Si sciolsero per una sorta di istinto manifestato attraverso un decadentismo silenzioso o una paura latente. L'unico che non voleva lo scioglimento, l'unico che voleva guardare la morte in faccia dovette essere Crash, che (anche) per questo si suicidò. Per gli altri lo scioglimento del gruppo fu come una sorta di inconscia rinunzia al suicidio e istintivo (anche se per inerzia) mantenimento della vita.

Per anni, impegnati nell'elaborazione del lutto (del personale lutto: erano vivi quando si erano visti già morti) né di Pat Smear, né di Lorna Doom, né di Don Bolles, si seppe nulla. Poi, in una sorta di inerme e sterile post, di vizio necessario, troviamo: Pat Smear a supportare il movimento grunge prima da solo con Pat Ruthensmear (1988) e So You Fell In Love With A Musician (1992), quindi con i Nirvana - che accompagnò nell'ultimo tour, sconosciuto da tutti tranne che dai suoi figli, i Nirvana appunto - e, purtroppo, con i Foo Fighters; Don Bolles a fare metal con i Celebrity Skin; Lorna Doom, come l'amica (e seconda batterista dei Germs: la prima era stata la bellissima Belinda Carlisle) Donna Rhia, dopo essere stata tra i primissimi esempi di quella che sarà la femme-maudit degli anni 80, ha scelto di leccarsi le ferite più senili nel totale anonimato.








09/02/2007 20:31
 
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janis joplin
Il mondo del rock era ancora sotto shock per la morte di Jimi Hendrix, quel 4 ottobre del 1970, quando arrivò la notizia che al Landmark Motor Hotel di Hollywood, California, era stato trovato il corpo senza vita di Janis Joplin. Quindici giorni dopo la scomparsa del grande chitarrista, si spegneva anche la voce femminile più "blues" della storia del rock. Il referto del dottor Noguchi, capo coroner della contea di Los Angeles, non lasciò spazio a dubbi: la cantante americana era morta il giorno prima, stroncata da un'overdose di eroina. Il suo corpo fu cremato e le sue ceneri disperse nell'Oceano, lungo la costa di Maryn County, in faccia all'Oceano.
Finiva così, a soli 27 anni, l'esistenza inquieta di Janis Joplin. Una vita vissuta pericolosamente, tra droghe e alcol, da quando, appena ventenne, era fuggita dalla sua "prigione natale", come chiamava Porth Arthur (Texas), la città dove era nata il 19 gennaio 1943. Il padre lavorava in una fabbrica di lattine, la madre era impiegata in un college. Sovrappeso e con la pelle rovinata dall'acne, Janis era una ragazzina piena di complessi, che cercava rifugio nella musica. Così, a 17 anni, mollò il college e fuggì di casa. Per seguire le orme delle sue stelle musicali preferite: Odetta, Leadbelly e Bessie Smith.

Cominciò esibendosi nei club country&western di Houston e di altre città del Texas. Appena ebbe abbastanza denaro, prese un bus per la California. Era l'era hippy, e Janis entrò a far parte di diverse comuni, stabilendosi a San Francisco per alcuni anni. Per un caso, tornò in Texas all'inizio del 1966, poco prima che un suo amico, Chet Helms, diventasse il manager di un nuovo gruppo rock, "Big Brother and the Holding Company".


La band aveva bisogno di una vocalist femminile e Helm pensò a Janis. La contattò e la convinse a tornare a San Francisco. La fusione tra la voce abrasiva di Joplin e il ruvido acid-blues della band si rivelò un successo. Il gruppo divenne subito popolare in tutta l'area di San Francisco e fu chiamato a partecipare al rock festival di Monterey nel 1967. Una performance trionfale, bissata due anni dopo da Janis Joplin, questa volta come solista, a Woodstock.

Arrivò così il loro album d'esordio, intitolato semplicemente con il loro nome, Big Brother and the Holding Company. Seguì una serie di concerti in tutti gli Stati Uniti. L'esibizione di Janis Joplin a New York, in particolare, entusiasmò la critica. Il successo la convinse così a lasciare la band, per intraprendere la carriera solista, nel 1968, subito dopo la pubblicazione del secondo album, Cheap Thrills, impreziosito da una cover "acida" di "Summertime" di George Gershwin, resa memorabile dall'interpretazione straziante di Joplin.
Nel frattempo, la cantante texana era diventata uno dei simboli del rock al femminile, e, a dispetto di un fisico non proprio da top-model, perfino un sex-symbol. La sua sensualità selvaggia la rendeva infatti l'alter ego femminile di ciò che erano, in quegli anni, Jim Morrison o Mick Jagger. Lo confermava un articolo apparso su "The Village Voice": "Pur non essendo bella secondo il senso comune, si può affermare che Janis è un sex symbol in una brutta confezione".

Il gruppo di musicisti con cui Janis intraprese la carriera di solista si chiamava "Kozmic Blues Band". Con questa band realizzò il suo primo album per la Columbia: I Got Dem Ol' Kozmic Blues Again Mama. La sua vita era a una svolta. Stanca di storie sentimentali senza futuro, aveva trovato un uomo che finalmente amava. E dopo le critiche alle sue ultime performance, sembrava aver deciso di dare un taglio agli eccessi di un'esistenza inebriante ma illusoria. All'inizio del 1970, così, formò un nuovo gruppo, la "Full-Tilt Boogie Band", con cui diede vita a un album-prodigio come Pearl (il soprannome con cui la chiamavano gli amici). Oltre a una versione di "Me and Bobby McGee" di Kris Kristofferson, il disco includeva hit come la trascinante "Get it while you can", la struggente "Cry baby" e l'umoristica "Mercedes Benz", composta da lei stessa.

Ma prima che l'album fosse pubblicato, arrivò la tragica notte di Hollywood. Forse quel "buco" doveva essere l'ultimo. Forse anche con l'eroina aveva deciso di farla finita. Ma quella notte spense per sempre la sua voce. Una voce appassionata e straziante, che era insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Un canto unico e inimitabile in tutta la storia del rock. "Era una musa inquietante - scrive il critico rock Riccardo Bertoncelli - una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà". Uno stile che diventerà un riferimento preciso per intere generazioni di vocalist, da Patti Smith a PJ Harvey, da Annie Lennox degli Eurythmics a Skin degli Skunk Anansie.

Janis Joplin, alla cui vita sarà dedicato l'imminente film "Piece of my heart", con Brittany Murphy, ha vinto tre dischi d'oro: il primo con la "Big Brother and the Holding Company" per l'album "Cheap Thrills", il secondo come solista per "I Got Dem Ol' Kozmic Blues Again Mama" e il terzo, postumo, con "Pearl". Grazie al pezzo di Kris Kristofferson, "Me and Bobby McGee" riuscì anche, dopo la morte, a scalare quella classifica dei singoli, nella quale in vita non era mai riuscita ad entrare. La critica, oggi, la considera all'unanimità una delle migliori interpreti bianche di blues di tutti i tempi. Alcune settimane prima di morire, aveva acquistato la lapide della tomba di Bessie Smith, la sua grande musa ispiratrice. E il destino ha voluto che anche il suo ultimo brano si rivelasse una macabra profezia: "Buried alive in the blues", sepolta viva nel blues.








09/02/2007 20:32
 
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jimi hendrix
Jimi Hendrix è stato considerato all'unanimità il più grande chitarrista elettrico di tutti tempi. La sua vita si concluse tragicamente. Era il 18 settembre 1970: Hendrix fu trovato riverso sul letto di una stanza del Samarkand Hotel di Londra, stroncato da una dose eccessiva di barbiturici. Da allora è stato un susseguirsi di omaggi alla sua memoria, ma anche di insinuazioni sulla sua morte, considerata "misteriosa" come un po' tutte quelle delle rockstar. Intorno al patrimonio di Hendrix si è scatenato un vespaio di beghe legali e di operazioni speculatrici. Come in vita, anche dopo la morte il grande chitarrista nero è stato manipolato da impresari senza scrupoli. Hendrix, infatti, fu uno degli artisti più sfruttati dall'industria discografica, che non esitò a pubblicare tutto ciò che egli aveva suonato. L'ultima uscita, in ordine di tempo, è "The Jimi Hendrix Experience", un box di hit e inediti assemblato dalla Hendrix Foundation (di fatto il padre di Jimi, Al).

Ma al di là del valore dei suoi dischi (Are You Experienced? ed Electric Ladyland i migliori), il musicista americano segnò la storia del rock inventando un nuovo stile di suonare la chitarra, uno stile vulcanico, che ruppe con la tradizione e aprì nuove frontiere alla sperimentazione sugli strumenti musicali in genere.

Nato il 27 novembre 1942 a Seattle, da un incrocio fra indiani, neri e bianchi, James Marshall Hendrix comincia a suonare la chitarra a undici anni, poco dopo la morte della madre. A 16 lascia la scuola per darsi al vagabondaggio, guadagnandosi da vivere con gruppi di rhythm and blues e di rock'n'roll. Dopo aver prestato servizio militare come paracadutista, a 21 anni si inserisce nel giro dei session-man. Diventa il chitarrista di Little Richard, Wilson Pickett, Tina Turner, King Curtis. Nel 1965 al Greenwich Village forma il suo primo complesso e ottiene un contratto per esibirsi regolarmente. Jimi è già padrone di una tecnica superiore, il blues scorre puro lungo le corde della sua chitarra, ma l'America rapita dal beat è tutta presa dai suoi giovani fenomeni bianchi. La fama del prodigioso chitarrista giunge però alle orecchie di Chas Chandler, ex-Animals, manager a New York in cerca di nuovi talenti. Chandler lo porta con sé a Londra, dove gli procura una sezione ritmica, lo introduce negli ambienti rock e nel colorato mondo del flower-power inglese, propiziando l'amicizia con Donovan. Hendrix conquista l'Europa col blues elettrico, dilaniato e lancinante dei singoli "Hey Joe" e "Purple Haze", cui fanno seguito un paio di tour, nel corso dei quali l'entourage del chitarrista alimenta l'immagine di Hendrix personaggio mefistofelico, dedito alle più estreme esperienze di droga e sesso. Jimi sta al gioco infiammando le platee con un repertorio coreografico che è diventato parte inestricabile del suo mito: la sua Fender Stratocaster è, di volta in volta, la proiezione del suo membro, oppure compagna di torridi amplessi elettrici, suonata coi denti, i gomiti, gli abiti, strofinata contro l'asta del microfono o contro le casse alla ricerca del feedback più corrosivo.

L'eco delle gesta dell'indemoniato performer giunge così in America. Nel frattempo, nel '67, viene pubblicato Are You Experienced?, primo album della Jimi Hendrix Experience, il trio che il chitarrista ha formato col bassista Noel Redding e il batterista Mitch Mitchell. E' una straordinaria opera prima, che segna il passaggio da un rock-blues ad alto potenziale a una musica magmatica che rincorre la psichedelia arricchendola di richiami all'esoterismo afroamericano ma, soprattutto, di un modo di suonare la chitarra mai visto in passato.

Il punto di partenza è il blues, con cui Hendrix cala nel suo sound lo stesso aroma di zolfo del Delta blues di Robert Johnson, ma utilizzando ogni possibile effetto (distorsioni, delay, wah-wah) e ogni parte del suo corpo (tutta la mimica della mano, del braccio, persino della bocca) per tirar fuori dallo strumento il maggior numero di suoni, voci, timbri, quasi fosse un corpo posseduto da esorcizzare. Con Hendrix, nasceva la moderna chitarra elettrica: non più semplice strumento, ma voce e orchestra al servizio del rock. Si passa così dalla grinta sensuale di "Foxy Lady" al soul viscerale di "Fire", dall'attacco epilettico di "Manic Depression" alla lunga cavalcata psichedelica di "Third Stone From The Sun", durante il quale la voce (filtrata e rallentata) mormora parole oscure e la chitarra si impenna in un caos di sibili e vibrazioni, fino all'esplosione finale.

Il festival di Monterey (18 Giugno 1967) è la consacrazione di Hendrix come animale da palcoscenico. Al termine della sua estenuante esibizione (con una versione demoniaca di "Wild thing"), dopo aver dato fuoco alla chitarra, raccoglie un'ovazione interminabile. In breve la sua Fender, simbolo fallico, idolo sacrificale, immolata sull'altare del palco al termine dei suoi concerti, con tanto di roghi e distruzioni selvagge, diventa la più potente icona del rock.

Dopo l'uscita di Axis bold as love, disco più morbido con tenere ballate come "Little Wing", "Bold as love" e "Castles made of sand", arriva il terzo album, il doppio Electric ladyland, con il bolgie frenetico di "Crosstown traffic" e le due lunghe jam psichedeliche di "Voodoo Chile" e di "1983". E' l'occasione anche per cogliere meglio il senso delle liriche di Hendrix, sempre inquiete ed equivoche, piene di riferimenti alla morte, alla religione, alla magia e al soprannaturale. "I miei testi nascono spesso dai sogni che faccio - aveva raccontato -. Ad esempio 'Purple Haze' è la ricostruzione di quando ho sognato di camminare sott'acqua". E le ballate blues mettono in luce tutta la compostezza del suo canto, che riesce ad essere insieme limpido e lancinante, calmo e sofferto, acido e caldo.

Ma già nel 1968 comincia il declino fisico, morale e artistico di Hendrix. Insorgono i primi dissidi all'interno dell'Experience. E lo stesso chitarrista sembra più dedito agli atteggiamenti provocatori che alla musica. Viene arrestato in Svezia per aver sfasciato una camera d'albergo. L'anno dopo si separa da Chandler. Viene arrestato due volte la prima per teppismo, la seconda per droga. Quindi si trasferisce a New York, dove frequenta le "Black Panther". Ma il palco è ancora il suo regno. Ad agosto, trionfa a Woodstock con una versione tutta distorta dell'inno americano ("Star spangled banner"), con la sua chitarra che imita i bombardamenti del Vietnam.

La sua smania di libertà tracima in eccessi continui. "Sono gentile con le persone finché non cominciano a urlarmi intorno - racconta in un'intervista a Melody Maker -. Qualche volta vorrei mandare al diavolo il mondo, ma non è nella mia natura. Quello che odio è la società di oggi, con le sue relazioni di plastica e i suoi compartimenti stagni. Io rifiuto tutto questo. Nessuno mi ingabbierà mai in una scatola di plastica". Ma Jimi comincia a sentirsi stritolare dalla macchina del successo di cui lui stesso è stato un docile ingranaggio. E l'angoscia gli cresce dentro. Come scrive il critico Paolo Galori, l'ultimo Henrix è "un musicista solo e visionario, pronto a volare ancora più in alto, fino a bruciarsi le ali, distrutto dagli eccessi nel disperato tentativo di non replicare se stesso di fronte a chi gli chiede prove della sua divinità". E lui, il suo epitaffio, lo aveva già scritto: "La gente piange se qualcuno muore, ma la persona morta non sta piangendo. Quando morirò voglio che la gente suoni la mia musica, perda il controllo e faccia tutto ciò che vuole".

Dopo aver formato il primo complesso rock di soli neri, la Band of Gypsies, con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso, si esibisce nell'agosto 1970 all'Isola di Wight. Un mese dopo, lo ritrovano morto a Londra, vittima di un'overdose di barbiturici. "Prima o poi doveva succedere", commenterà laconico Chandler.

Gli afro-americani, che avevano già perso per morte violenta sia l'"apostolo" Martin Luther King, sia il leader del loro orgoglio Malcom X, perdono anche colui che aveva restituito la paternità nera al rock'n'roll. La morte di Hendrix, seguita 16 giorni dopo da quella di Janis Joplin e nove mesi dopo da quella di Jim Morrison, chiude un'era: quella dei raduni oceanici, della contestazione in musica, della psichedelia senza confini, del rock dell'utopia estrema. Addio sogni hippy, addio età dell'Acquario. Gli anni '70 sono già alle porte, nuovi generi e nuove rockstar sono in arrivo, ma l'eco della chitarra distorta di Hendrix continuerà a risuonare in tutta la musica che da lì in poi ascolteremo.








09/02/2007 20:34
 
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led zeppelin
Il dirigibile dei Led Zeppelin è tornato a volare nei cieli del rock. E' uscita di recente, infatti, la doppia antologia Early days e Latter days, che raccoglie i successi della leggendaria band britannica. "Volevamo farci conoscere da una nuova generazione - racconta il chitarrista, Jimmy Page -. Ho sempre pensato che la nostra musica potesse durare a lungo, quello che non immaginavo è che io potessi vivere tanto. A 18 anni pensavo che sarei morto a 30, oggi ne ho 54 e mi sembra incredibile aver superato anche i 50".


Rivoluzione a 33 giri
Non c'è solo l'immortalità delle canzoni dietro il mito dei Led Zeppelin. Page, Plant e soci possono vantare una serie di piccole rivoluzioni che hanno cambiato la storia della musica. La loro mistura esplosiva di blues, hard rock e psichedelia aggiornò le intuizioni dei Cream e stravolse i canoni del rock'n'roll all'alba degli anni '70. Furono anche i primi a raggiungere un successo di massa senza dipendere dalla programmazione radiofonica. Fino ad allora, radio e televisione erano state dominate dalle hit parade, e quindi dal 45 giri. I Led Zeppelin sfondarono senza mai entrare in quelle classifiche. Nemmeno il loro più grande hit, "Stairway to heaven", divenne mai un singolo. E anche la laconicità con cui intitolarono i primi album (alcuni privi persino del loro nome in copertina) segnò una rottura con la tradizione, che voleva i titoli dei dischi funzionali al marketing della band.
Più ancora degli hit, ad attrarre moltitudini di fan furono le loro esibizioni dal vivo. Esibizioni che, sull'onda emotiva di Woodstock, riportavano il rock alla sue dimensione più selvaggia e genuina. I concerti dei Led Zeppelin erano pervasi da un'energia feroce, da una fantasia allucinata, da un furore quasi mistico. Erano baccanali assordanti e melodie folk, deliqui blues e sciabolate elettriche: un'orgia sonora dominata dai virtuosismi iper-veloci di Jimmy Page e dal canto stridulo e possente di Robert Plant. Il film "The song remains the same" ne resterà la testimonianza più celebre.
Per il pubblico italiano ci fu una sola occasione per vederli: il 3 luglio 1971, al Palavigorelli di Milano. E si sfiorò la tragedia. Prima, la violenta contestazione a fischi e lattine verso i "canzonettari" del Cantagiro, che aprivano la serata. Poi, durante l'esibizione dei Led Zeppelin, il putiferio: Robert Plant non fa in tempo a completare il primo brano, che la musica si ferma, la polizia spara candelotti lacrimogeni, si alza il fumo. Alla terza canzone, altri lacrimogeni e una carica della polizia, con la gente che, in preda al panico, invade il palco. "Quella sera credemmo di morire - ricorderà Plant -. Fummo costretti ad abbattere una porta per rifugiarci nei camerini. Quando cercammo di recuperare gli strumenti, scoprimmo che era stato tutto distrutto". Curioso, invece, l'episodio di Copenaghen, 21 febbraio 1970: i Led Zeppelin sono costretti a esibirsi come The Nobs per la minaccia di azione legale da parte degli eredi del conte Von Zeppelin, inventore del dirigibile simbolo del gruppo.


Trionfi e tragedie
"Capelloni" per antonomasia (a causa delle folte chiome venne loro negato il visto d'ingresso in Cina), i Led Zeppelin sono figli del '68. È in quell'anno che Jimmy Page, reduce dagli Yardbirds e da una militanza nel "beat" (Who, Kinks), conosce il cantante Robert Plant. Ingaggiati il bassista-tastierista John Paul Jones e il batterista John "Bonzo" Bonham, la band esordisce con Led Zeppelin I, nel segno di un poderoso blues psichedelico. Ed è subito il trionfo, con brani come "Dazed and confused", "Babe I'm gonna leave you" e "Communication breakdown". Un trionfo bissato da II, tra l'energia hard-rock di "Whole lotta love" (da un tema di Willie Dixon) e l'assolo di batteria di "Moby Dick" (forse il più celebre della storia del rock). Il disco che venderà di più, però, è IV, pervaso da uno spirito folk e mistico, con la memorabile "Stairway to heaven". Ma anche Houses of the holy, con la struggente "The rain song", e il doppio Physical graffiti riuscirono a tenere in quota il dirigibile-Led Zeppelin. Poi, salvo qualche eccezione, l'appannamento, segnato anche da due tragedie: l'improvviso decesso per infezione virale del figlio di Plant e la morte del batterista John Bonham, per soffocamento, dopo una serata di abusi alcolici. Il 4 dicembre 1980, il comunicato-epitaffio della band: "La perdita del nostro amico e il rispetto per la sua famiglia ci hanno portato a decidere che non potremo continuare come prima". Da allora, salvo sporadiche esibizioni dal vivo (tra cui Live Aid), i superstiti hanno seguito strade separate. Più deludente quella di Page (con i Firm), più dignitosa quella di Plant.


Celti, maghi e figli dei fiori
Nel repertorio dei Led Zeppelin non c'è solo il blues e l'hard rock, ma anche il folk celtico e i miti medievali, uniti a una passione particolare per l'occulto. Una passione che spinse Page ad andare a vivere nella "casa maledetta" del mago Aleister Crowley vicino al lago Loch Ness, in Scozia. E fu proprio l'aura di magia nera che circondò la band a scatenare le prime polemiche sul rock satanista. Polemiche ancora attuali. Nei giorni scorsi Page ha vinto una causa contro la rivista "Ministry magazine" che lo accusava di aver assistito inerte alla morte di Bonham, indossando una tunica "satanista" e tentando perfino un incantesimo. Robert Plant, invece, è stato a volte criticato per aver scritto testi da figlio dei fiori demodé: "Come può mai essere "datato" un figlio dei fiori? - replicò -. L'essenza di ciò che scrivo è il desiderio di pace, di armonia. È tutto quello che ogni persona ha sempre voluto. Come può diventare un argomento fuori moda?".
Oggi i figli dei fiori sono quasi una razza estinta, ma i figli dei Led Zeppelin non si contano più. Gli ultimi sono quelli di Seattle, della generazione grunge dei Nirvana e dei Pearl Jam, che hanno aggiornato il loro hard rock con un punk iconoclasta e disperato. Ma ai Led Zeppelin non servono eredi. Hanno già venduto 150 milioni di dischi. E sono ancora venerati da folle di vecchi e giovani fan. Un elisir di eterna giovinezza musicale: è questa la loro "scala per il paradiso".








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AC/DC
Gli australiani AC/DC a metà anni Settanta furono in grado di fare punto e a capo in campo hard-rock e di rifondare così il genere architettato meno di dieci anni prima dagli inglesi Deep Purple.
L'hard-rock è lo stile rock più vicino al rhythm and blues: i Deep Purple ottennero l'hard-rock esasperando il rhythm and blues e arieggiandolo col nascente progressive. Ma già a inizio anni Settanta questo sottogenere rock era entrato nel manierismo, nonostante la sua diffusione in tutto il mondo stesse portando da un lato a sue rivisitazioni originali (come nel caso dei Blue Oyster Cult) e dall'altro a un'ortodossia definitiva dei suoi caratteri (come con gli Aerosmith e i Kiss).

Nel 1975 gli AC/DC furono gli inconsapevoli e solitari protagonisti di una "new wave" che anticipò di un anno quella newyorkese e che consistette nel reagire alle posticce, polverose, impalcature di cui si era ormai appesantito il mondo rock: siano esse andate sotto il nome di progressive, cantautorato o elettronica. Fu un'operazione anti-intellettualistica, un richiamo alla natura, alla semplicità e agli istinti più bradi del rock n'roll. E si badi, che con tutte le differenze di mezzi, fini e valore, tale ritorno alla natura, alla sincerità, fu anche l'essenza del punk prima e della new wave poi. La musica, il rock, doveva tornare a significare, a essere prima contenuto e poi musica; e smettere di autocelebrarsi nelle lunghe jam strumentali fine a se stesse o di nascondersi nelle nenie dei cantautori.
A tale fine giungerà la new wave coi suoi manifesti più o meno taciti; gli AC/DC a forza di ignoranza, qualunquismo, dabbenaggine, bestialità: utilizzando, cioè, i caratteri del vecchio rock n'roll. Concluderanno la storia dell'hard-rock i Guns n' Roses, che rifonderanno nel 1987 per la terza volta il genere, ancora in un suo momento di stanca e ancora servendosi di un altro genere: come i Deep Purple si servirono del progressive su una base blues, come gli AC/DC tolsero il progressive e ritornarono al più immediato rhythm and blues, così i Guns n' Roses sarebbero impossibili senza la stagione punk.

Grezzi, istintuali, senza fantasia, meschini, incompetenti, gli AC/DC fecero del disvalore un valore e qui sta la loro rivoluzione. All'epoca recepiti come gli oltranzisti dell'hard-rock che avrebbero fondato l'heavy-metal, in realtà costoro non ebbero nulla a che fare con il metal se non per motivi commerciali quando con l'andare degli anni le forze degli esordi venivano illanguidendosi e intanto da ben altri il metal era ormai stato istituzionalizzato. No, gli AC/DC furono, nel loro primo periodo, che è quello che conta, né più né meno che feroci esecutori di semplicissimi, primitivi e indemoniati rhythm and blues. Nessun'ombra dell'epica, etica ed estetica metal. Non poco avrà contribuito la loro terra, la lontanissima Australia, a stimolare questa dimensione aborigena, che è il loro punto di forza.

In 30 anni di attività, gli AC/DC hanno imbandito una dozzina d'album, ma nel loro periodo principe, dal '75 all'80, nonostante fossero perennemente in tour, dispensavano un nuovo album all'anno. Il tour e il rock n'roll erano del resto la loro vita e suonare, non importa se materiale nuovo o originale, la loro aria e il loro cibo.
Gli AC/DC sono il gruppo che i fratelli Malcom e Angus Young formarono nel 1973, quando il primo aveva vent'anni, e il secondo diciotto. Nati in Scozia, ebbero un tono in più da aggiungere alla loro eccentricità infantile e scanzonata, facendo rivivere, come fuori dal tempo e dalla geografia, il mito del minorenne delinquente metropolitano, magari implicato in storie di mafia e operante in cittadine fumose e babeliche come la Chicago di un Al Capone. Malcom alla chitarra ritmica, Angus alla solista, il primo a tenere il filo della matassa, il secondo a contorcerla nei modi più spettacolari, dopo tanti anni si ricordano non tanto per uno dei loro riff vecchi come la storia del rock, né per un album in particolare, ma per un tono, un senso inconfondibile di pienezza epicurea, magari ottenuta attraverso il rischio, la sregolatezza e l'ottusità, ma dura come la roccia. È un suono, quello degli AC/DC che sa di cattedrale nel deserto; di opera titanica e barocca eretta con bastioni di muri semplici e disadorni. Si ha un eccesso di materia, di quantità, a forza di scarsezza nella qualità e nella varietà. È un mondo derivato dalla somma di elementi semplicissimi. E avvince per quello che avvince in quanto pare troppo elementare, troppo stupido per poter essere vero o credibile. I brani degli AC/DC potranno essere più o meno riusciti, ed è innegabile che una volta se ne sia ascoltato uno se ne sono ascoltati tutti, ma anche nei momenti di stanca, nei momenti davvero fine a se stessi, resta la presenza del mondo immaginativo evocato dagli Young attraverso le loro chitarre.

Al maschilismo tipico dell'hard-rock, i fratelli Young sommavano un peculiare tocco di stravaganza, presentandosi come luciferini enfant prodige del rock n' roll e volendo sconcertare con le loro pose da giovani figli del Diavolo che non si sa fin dove scherzino o facciano sul serio. L'abbigliamento di Angus Young divenne iconico: camicia, giacca e cravatta da college sopra; pantaloncini corti con scarpe da ginnastica sotto. Con gli AC/DC il satanismo dei Black Sabbath divenne kitsch e trash. Passò da cosa seria a scherzo.
Accompagnavano le rocciose chitarre degli Young la essenziale sezione ritmica di Mark Evans al basso e Phil Rudd alla batteria. Più vecchio, ventinovenne all'esordio del gruppo, il cantante Bon Scott era anche lui casualmente di origine scozzese e vantava una voce prettamente blues, roca e potente, corrispettivo malato di quella più gioviale di Robert Plant.
Il produttore olandese Harry Vanda, all'epoca non ancora trentenne, fu per lungo tempo di non poco aiuto ai fratelli Young per far loro raccogliere adeguatamente le idee. Con lui, il terzo e maggiore dei fratelli Young: George.

Prima di giungere alla fama planetaria gli AC/DC dovettero superare recise ostilità sia del pubblico sia, soprattutto, della critica. E come poteva essere altrimenti? In un'epoca fatta di leziosità, intellettualismo, al limite di un glam e di un rock n'roll revival o programmatici e diretti dall'alto o rifiutati dal mainstream, gli AC/DC si presentarono facendo la figura del contadino coi panni da lavoro in una serata di gala dell'alta borghesia. Anche in campo hard-rock, dai Led Zeppelin ai Rush, dai Black Sabbath a Jeff Beck, tutti proponevano ben altre sofisticatezze rispetto agli australiani, additabili davvero come il campagnolo in città. Ci vollero concerti su concerti, il primo, il secondo, il terzo album prima di un'espansione a macchia d'olio. Ci volle soprattutto il maturare dei tempi. Ci volle il '77. Ma fino all'80, al botto di Back In Black, gli AC/DC dovranno stare coi piedi per terra. Poi, il successo, come spesso accade, li incoronerà e non li abbandonerà più, anche e soprattutto quando non faranno nulla per meritarselo. Del resto, i classici, possono anche permettersi di vivere di rendita.

Sebbene i principali figli degli AC/DC siano i Def Leppard e tutta la miriade di gruppi hard-rock anni Ottanta che ne derivarono, senza dimenticare un'influenza anche su gruppi metal come i Judas Priest o gli Accept, sia negli anni 80 sia nei 90, un po' tutti si confronteranno con gli AC/DC, col riff grezzo, dai Metallica ai Nirvana. Nessuno, però, potrà continuare un percorso reazionario, inattuale e retto sulla concreta forza di singoli anziché su teorici programmi d'intenti. Inoltre, visto il tipo di musica, sottile è la linea tra l'essere AC/DC o non essere altro che un pedante gruppo di rhythm and blues revival. Spesso, anche gli stessi AD/DC l'hanno oltrepassata.

L'esordio High Voltage - nel 1974 per il mercato australiano, poi nel 1976 riedito per quello mondiale - persegue tre filoni. Il primo e più importante vede brani che istituzionalizzano quello che sarà il suono classico della band: "Live ware" e "TNT" i migliori, ma "It's A Long Way To The Top" e "Rock 'n' Roll Singer" quelli che influenzeranno miriadi di epigoni. Il secondo riguarda scattanti brani di revival rock n'roll: "Can I Sit Next To You Girl"e "High Voltage". E il terzo brani di revival rhythm and blues: il demoniaco "Jack", il sensuale "Little Lover", l'hendrixiano "She's Got Balls". Con quest'album gli AC/DC colpiscono su entrambi i fronti che si erano proposti: quello dell'innovazione e quello della tradizione, che poi, a ben vedere, sono uno solamente, consistendo la loro innovazione in un ritorno alle origini.

Nel 1975 esce TNT, con una significativa cover da Chuck Berry, ma è solo una sorta di refuso in attesa della riedizione del primo album.
Nel 1975 viene realizzato anche Dirty Deeds Done Dirt Cheap, per la cui pubblicazione si dovrà però attendere sino al 1981. La smagliante forma del gruppo è confermata dalla sincerità con cui vengono eseguiti brani altrimenti retorici come "Love At First Feel" e "Big Balls" o ai limiti del plagio dei rocker anni Cinquanta, come "There's Gonna Be Some Rockin" e "Rocker". In quest'album, contrariamente agli altri, prevale il revival rock n'roll su quello blues. E si fa strada anche una certa qual dimensione da arena in corali come "Dirty Deeds Done Dirt Cheap", variando sui quali si arricchiranno gruppi come i Def Leppard o i Poison. I pezzi più interessanti o inusuali sono le due semi-ballad di chiusura, "Ride On" e soprattutto la velenosa "Squealer".

Let There Be Rock, del 1977, fu il primo album degli AC/DC a entrare in classifica; negli Usa è al numero 154. Il sound del gruppo si va appesantendo ed è più tagliente e abrasivo. Di questo processo brani come "Go Down", "Dog Eat Dog" e "Let There Be Rock" sono tappe significative. La caduta nelle melensaggini di certi Led Zeppelin di "Whole Lotta Rosie" - che così tanto piacciono al pubblico - è riscattata dal calvario compiaciuto di Scott in "Problem Child" e "Overdose", quintessenza dei clichè blues-rock.
Powerage nel 1978 è numero 133 negli Usa e può considerarsi soprattutto come un lavoro di mantenimento da cui emergono però, oltre al classico "Sin City", brani secchi come "Kicked In The Teeth" o addirittura riflessivi come "Gone Shootin", che nella parte iniziale sembra un abbrutimento delle tessiture dei Dire Straits.

Dopo l'importante live del 1978, If You Want Blood You've Got It, che immortala il gruppo al vertice delle sue potenzialità e al massimo delle sue forze, come dimostra la dirompente e riuscita foto di copertina, è la volta, nel 1979, di Highway To Hell, primo successo degli AC/DC che fa loro raggiungere il diciassettesimo posto nelle classifiche americane e il milione di copie vendute. Alla celebre copertina, tra la burla e la depravazione, corrispondono brani altrettanto celebri nei circuiti hard-rock come la corale title-track e la tagliente "If You Want Blood (You've Got It)". Su "Night Prowler" c'è spazio addirittura per chitarre slide;"Get It Hot", "Beating Around The Bush" e "Walk Over You", veloci, maciullate e screziate, conchiudono questo classico della perdizione piccolo-borghese, per attitudine assimilabile ai primi, sporchi lavori del Rolling Stones.

Nel 1980, l'anno degli Iron Maiden, usciva un altro classico, per certi versi opposto al precedente, Back In Black. Lavoro non proprio privo di punti deboli, come credeva Kurt Cobain e con lui molti altri; lungo forse dieci minuti più di quello che il fiato dell'ispirazione avrebbe consentito, vanta alcuni dei riff più memorabili della carriera degli AC/DC: quelli di "Hells Bells" e "Back In Black"; e soprattutto "You Shook Me All Night Long", forse il brano più pop degli AC/DC fino a questo momento, ma capace con il suo appeal di andare oltre certe considerazioni e di porsi tra i definitivi testamenti della musica popolare.
Il suono appare nel complesso ripulitosi, conformatosi, raffreddatosi, rispetto al magma della perdizione dei lavori precedenti. L'album si piazzò al numero quattro delle classifiche americane, facendo fare un definitivo passo avanti al gruppo. Col tempo, solo negli Stati Uniti, passerà le dieci milioni di copie vendute. L'inglese tretantreenne Brian Johnson aveva preso il posto del defunto Bon Scott. Forse più tecnico, di sicuro meno espressivo e dotato, Johnson altererà solo minimamente le orientazioni blues del gruppo in senso rock. Quando il blues si farà sempre meno sentire dipenderà dalle scelte dei fratelli Young.

For Those About To Rock We Salute You, nel 1981, raggiunge finalmente il primo posto delle classifiche, proponendo tutta la casistica dei clichè tra hard-rock e blues che saranno propri degli anni Ottanta e che gli AC/DC avevano, quasi da soli, creato nella decade precedente. È l'album più duro e pesante del gruppo sino a questo momento, come testimonia la title-track, posta come di consueto in apertura. Tuttavia è appesantito da una verbosità e magniloquenza non più redenta dal demonio blues di Scott. Fin da qui è possibile prevedere che al riscontro commerciale gli AC/DC non potranno far corrisponderne uno paragonabile nella qualità dei loro lavori.
Prima la musica degli AC/DC non serviva per stimolare cervello, sentimenti o gambe, ma, come una stupida droga, per ammorbarli, svilirli, dissolverli; qui stava il suo elemento demonico e apotropaico e quindi in una certa misura magico. Venuto meno Scott, il gruppo è diventato la negazione di quel che era: non più spartano ma lussuoso, non più amaramente ironico, ma velleitario nel perseguire miti e compiacenze dello star-system dell'hard-rock.

Dopo una breve pausa per godersi il successo faticosamente conquistato, nel 1983, su Flick Of The Switch, l'ottavo album in otto anni di attività, solo il quasi heavy-metal di "Landslide" e i riff, comunque a dir poco risentiti, di "Bedlam In Belgium" sciolgono la catena dello sterile esercizio.

Fly On the Wall, del luglio 1985, sarebbe ancor più fiacco e senza convinzione: si finisce, in "Shake Your Foundations" per sfiorare ridicolmente quasi toni da disco-dance; se non fosse per "Danger", la novelty di turno, "Sink The Pink", con le tipiche frastagliature di chitarra, e "Playing With The Girls" in coppia con "Send For The Man", capaci ancora di riff accattivanti, anche se triti. Per il resto è poco più che vieto arena-rock, con insopportabili cori, nato e morto nell'epoca in cui andava di moda. I brani migliori sono quelli dove le parti strumentali prevalgono sulla voce, o comunque, le cose migliori si trovano nel mestiere dei fratelli Young; quando all'epoca di Scott poteva dirsi anche il contrario.

Dopo uno iato di tre anni, Blow Up Your Video disorienta abbastanza, vista la band in questione, per il ventaglio di diversi generi che propone, anche se tutti filtrati da solito, robusto, rhythm and blues. Dal quasi rock-pop di "Heatseeker", alle squadrature rockabilly di "That's The Way I Wanna Rock & Roll"; si sfiora poi il soul in "Meanstreak" e il boogie in "This Means War"; in "Some Sin For Nuthin'" e "Nick Of Time" si offrono poi due alti esempi di hard-rock con in evidenza la sezione ritmica. È musica sgradevole, antimelodica e volontariamente stupida perché cocciutamente fine a se stessa; è cioè musica che segue il principio che fu di Scott. Per questo riesce, anche nell'epoca dell'ultimo hard-rock, quello dei Guns n' Roses, a non annoiare; cosa non da tutti. L'album raggiungerà il numero 12 negli Usa, dopo i mediocri piazzamenti dei due lavori precedenti e prima dei grandi consensi verso quelli che seguiranno.

The Razor's Edge, nel 1990, è di fatto l'ultimo album degli AC/DC e una sorpresa per la scioltezza che il gruppo ancora dispensa e che gli consente di avvicinare sia l'heavy-metal che un certo qual melodismo senza perdere la propria identità. Tuttavia, brani come "Let's Make", a suo modo sfruttati da gruppi alternativi come gli Extreme, risultano ormai datati al di là di ogni alibi di revival. Le cose migliori: la scorribanda progressive di "Thunderstruck", i riff mainstream di "Mistress For Christmas", le sincopi di "Fire Your Guns" e le cupezze sincere dei cori di "Razor's Edge" e della confessione di "If You Dare".

Cinque anni dopo Ballbreaker e cinque dopo ancora Stiff Upper Lip possono risultare anticaglie, vezzi inutili, anche giochi ridicoli; ma non si può rimproverare loro sincerità e dedizione alla causa. Chi riesce ad apprezzare gli AC/DC del periodo classico non ha nessun motivo per non apprezzare anche questi ultimi album; ai quali tuttavia ci si augura che non ne vengano aggiunti di nuovi: sarebbe chiedere davvero troppo alla pazienza e comprensione degli ascoltatori, oltre che alla maschera di se stessi.








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deep purple
I Deep Purple sono uno dei gruppi fondamentali dell'hard rock, inferiori forse ai soli Led Zeppelin, rispetto ai quali probabilmente non hanno avuto uguale propensione alla sperimentazione e alla ricerca sonora. Con ciò non si creda che i Deep Purple siano stati del tutto privi di originalità; la loro miscela di fragore e melodie raffinate, abbinata a una eleganza esecutiva indubbia costituisce una novità nell'ambito del rock più ruvido. La loro musica migliore appare come estremamente semplice e fruibile, ma non banale: tuttavia una parte della critica tende a sminuirne il valore, liquidando il gruppo come fautore di dischi troppo corrivi e ordinari. In realtà, nel periodo d'oro del gruppo è evidente la volontà di aprirsi a un ventaglio di sonorità e stili molto ampia; tale qualità costituisce un valore aggiunto che distingue i Deep Purple dalle molte band che in seguito riproporranno aridamente e senza lo stesso gusto alcune loro brillanti soluzioni, contribuendo a banalizzare e impoverire la "scena" hard rock. Queste specificità sono spesso rivendicate dai componenti del gruppo, tanto che Ian Gillan in un'intervista relativamente recente dirà: "Ciò che più mi dispiace è vedere oggi il nostro nome associato esclusivamente all'ambiente metal; noi in realtà ci muovevamo in un campo senza confini precisi, la nostra musica andava dai Black Sabbath a Marc Bolan, e nel mezzo ci mettevamo di tutto."

La band si forma attorno all'organista Jon Lord ed al chitarrista Ritchie Blackmore; entrambi vengono da una formazione musicale di stampo classico e sono affascinati dal neonato pop sinfonico di Moody Blues e Vanilla Fudge, ma ancor più forte è l'attrazione per il rhythm & blues americano, condivisa con gli altri componenti: Ian Paice alla batteria, Rod Evans alla voce e Nick Simper al basso. Così i primi e acerbi dischi Shades of Deep Purple e The Book of Taliesyn cercano di conciliare queste influenze, con risultati poco più che modesti; si tratta di compilazioni di brani originali inframmezzati da alcune coverche integrano un repertorio ancora piuttosto povero. Non mancano alcune citazioni classiche (in "And the address" o "River deep, mountain high"), piuttosto forzate e comunque poco convincenti. Tuttavia i Deep Purple assaporano il primo successo commerciale grazie alla cover del brano "Hush" (di Joe South), che li pone all'attenzione del grande pubblico. Cominciano così le prime lunghe tournèe, utilissime per trovare quel suono che la band insegue e che si baserà sull'Hammond potente del baffuto Lord e sul chitarrismo raffinato e al contempo energico di Blackmore.

Il successivo disco omonimo (1969) rappresenta un netto miglioramento: brani convincenti, ben costruiti e suonati con una carica nuova. Nell'ottima "Why didn't Roselary" compare il primo grande assolo di Blackmore, mentre Lord soddisfa la sua voglia di classicità nella barocca "Blind" e sopratutto in "April", lungo brano suonato alternativamente dal gruppo e da un orchestra sinfonica (arrangiata dallo stesso tastierista). Il tour che segue la pubblicazione di "Deep Purple" è un successo di pubblico, ma Lord e Blackmore intuiscono che per migliorare ancora bisogna ritoccare la formazione: vengono estromessi così Simper ed Evans, ed entrano rispettivamente Roger Glover e Ian Gillan. La scelta si rivela azzeccata fin dalle prime esibizione della nuova line-up, che poi resterà nota come Mark II: Glover è un bassista dallo stile sobrio, in grado di assorbire con solidità le lunghe fughe solistiche che i due leader amano proporre dal vivo, mentre Gillan è un interprete di gran talento nonché un valido frontman. Così assestata, band diventa una vera e propria "macchina da concerti", testimoniata da roventi bootleg ancora oggi di facile reperibilità. Vengono composti anche parecchi brani nuovi: il singolo "Black night" ne è un esempio; si tratta di un aggressivo hard-blues, molto accattivante, e che diventa ben presto conosciutissimo. Ma quando la band sembra lanciata ai vertici del rock duro, a sorpresa Jon Lord si getta su un suo progetto ambizioso quanto coraggioso: un concerto sinfonico per gruppo e orchestra, che si tiene nel settembre del '69 alla Royal Albert Hall di Londra. Lord si occupa della scrittura e dell'arrangiamento dell'orchestra (per l'occasione viene scomodata la Royal Philharmonic Orchestra), mentre al gruppo è lasciato poco spazio. Complessivamente il concerto è godibile e regala momenti avvincenti, anche se probabilmente alcuni arrangiamenti risultano un pò troppo ampollosi.

Messa da parte l'esperienza sinfonica, nel 1970 viene pubblicato il celeberrimo Deep Purple in rock; probabilmente il loro capolavoro, è un disco di grande energia e ricco di splendide canzoni. Il suono è volutamente grezzo e ruvido, ma il tutto è curato con notevole gusto. Il tour che segue consacra i Deep Purple a vertici della scena rock britannica.

Ma il gruppo non si adagia sul successo ottenuto, e quando nel '71 viene pubblicato Fireball, si notano subito dei tentativi di cambiamento; la ferocia del disco precedente lascia spazio alla ricerca di un suono leggermente ripulito; così accanto ai consueti brani durissimi (la title-track o "No one came"), compaiono alcuni pezzi dalle intenzioni vagamente psichedeliche ("Mule" e "Fools", con un organo à la Manzarek), nonché le divagazioni simil-contry in "Anyone's daughter".

Il tentativo di raffinamento riesce ancor meglio con Machine Head (1972): "Maybe I'm a leo" e "Lazy" riprendono con grazia i canoni del blues e mostrano un Blackmore a suo agio sia quando deve graffiare, sia quando deve ricamare assoli delicati; anche Gillan, qui alla sua miglior prova, si muove con agilità e sicurezza fra vocalizzi arditi. Non mancano anche qui gli episodi più tirati ("Highway star" e la funambolica "Pictures of home"), e il momento fortunato è confermato dall'incredibile quanto inatteso successo commerciale di "Smoke on the water" (il brano era inserito nella seconda facciata, quasi come un mero riempitivo). Si parte per una nuova tournée mondiale, che tocca anche il lontano Giappone: dalle tre date in terra d'Oriente viene tratto il celebrato Made in Japan, doppio album dal vivo che riprende il gruppo in un autentico stato di grazia, diventando in fretta uno dei dischi più popolari del rock.

Il successo travolge il gruppo e fa lievitare le pressioni e le tensioni al suo interno: in questo clima nasce Who Do We Think We Are? (1973), disco solitamente considerato minore, ma comunque molto buono e che rappresenta un ulteriore sviluppo nella ricetta musicale dei Deep Purple ("Woman from Tokio" e "Smooth dancer" i brani più noti). A ogni modo, poco dopo la fine delle registrazioni, Gillan e Glover lasciano il gruppo per lanciarsi nelle rispettive carriere soliste: specie Gillan riuscirà ad ottenere un discreto successo, pur cimentandosi in territori lontani dal rock in stile Purple (ad esempio in "Scarabus").
Blackmore e Lord non perdono tempo e sostituiscono i due defezionari con un sol colpo, chiamando nel gruppo il giovane cantante e bassista Glenn Hughes, che aveva già maturato una discreta esperienza nei Trapeze. In tal modo la formazione sarebbe di per sé già completa, ma l'entourage che circonda la band preme perché venga mantenuta la formula a 5 elementi: così entra un secondo cantante, David Coverdale.

Agli inizi del '74 esce Burn; l'intenzione è quella di tornare sulle orme di In Rock, con un suono più grezzo e un piglio più istintivo nell'esecuzione. Effettivamente "Burn" è un buon disco, con belle canzoni arricchite da un intelligente utilizzo delle due voci (potente e calda quella di Coverdale, più fresca e acuta quella di Hughes). Tuttavia qui s'interrompe la stagione di evoluzione della formula musicale dei Deep Purple, che d'ora in poi si limiteranno a ripetere all'infinito percorsi già tracciati negli anni precedenti (fa eccezione l'isolato esperimento del duetto chitarra-sinth nello strumentale "A 200"), Probabilmente Lord e Blackmore se ne accorgono, e nell'immediatamente successivo Stormbringer tentano un improvviso cambio di rotta verso sonorità funky ("You can't do it right" e "Hold on") e si cimentano in alcune ballate ("Soldier of fortune" o "Holy man"); ma si avverte una certa stanchezza compositiva, tanto che i brani più tipicamente hard-rock sono i più deludenti.

Ritchie Blackmore, insoddisfatto dai risultati di Stormbringer, abbandona il gruppo per formare i Rainbow; il gruppo sarà una sua diretta emanazione, con cui potrà ridare sfogo alla sua passione per le sonorità magniloquenti in una manciata di dischi di buon livello (dall'album d'esordio fino a "Long live rock'n'roll). I Deep Purple perdono così il loro leader principale, e molti pensano che senza lo stile inconfondibile del chitarrista, il gruppo sia destinato all'epilogo. Invece nel '75 viene rilasciato il buon Come Taste The Band, con alla chitarra il semi-sconosciuto Tommy Bolin; nonostante il cambio di formazione, il risultato non cambia in modo significativo: ormai i Deep Purple non riescono a essere che una copia di loro stessi. Ma la crisi è ormai irreversibile, e dopo il consueto tour, la band annuncia lo scioglimento. Intanto viene pubblicato un altro disco dal vivo, Made In Europe, con registrazioni dei concerti del '74 e contenente esecuzioni di alcuni fra i brani più recenti; il riferimento nel titolo al precedente disco dal vivo è piuttosto infelice, e comunque il confronto fra le due incisioni non è proponibile. Per di più Made In Europe è penalizzato da un missaggio pessimo, che sembra quasi preoccuparsi di offuscare la chitarra del fuggitivo Blackmore.

Negli anni seguenti verrà pubblicata una numerosa schiera di dischi antologici e di altri ancora registrati dal vivo, alcuni dall'utilità piuttosto dubbia.
Intanto David Coverdale fonda i Whitesnake, autori di un discreto hard-rock con forti influenze blues; per giunta nei primissimi anni 80 confluiranno nel gruppo anche Lord e Paice. Nel frattempo i Rainbow del tenebroso Blackmore hanno perso il loro slancio iniziale e si trascinano con dischi mediocri, rincorrendo il fortunato filone A.O.R.. Cominciano a farsi pressanti le voci di una reunion della cosiddetta "Mark II" (quella del periodo 1970-'73, per intenderci), ma nel '83 Gillan spiazza tutti accettando il ruolo di cantante nei Black Sabbath; tuttavia questa esperienza trova lo spazio di un disco (l'apprezzabile Born Again) e di un breve tour. Così nel 1984 i tempi sono maturi per la riunione ufficiale. Esce Perfect Strangers, un grande disco di rock legato certamente allo stile classico del gruppo, ma non nostalgico. Il suono è sufficientemente fresco e i brani molto efficaci e ben prodotti ("Knocking on your back door", la title-track e la ballata elettrica "Wasting sunsets" sono i brani migliori). Le cose nel gruppo sembrano tornate a girare nel modo giusto, e la lunga tournée che segue è entusiasmante.

Il successivo The House Of Blue Light (1987) si sposta su atmosfere più compassate e mature, ma nel complesso convince meno dell'esplosivo predecessore. Nell'anno seguente Nobody's Perfect testimonia il ritorno dal vivo del gruppo. Ma presto Gillan e Blackmore ricominciano a litigare, e il cantante abbandona nuovamente; al suo posto viene chiamato l'ex Rainbow (il che fa capire quale sia ora il "peso" del chitarrista nel gruppo) Joe Lynn Turner. Così nel '90 vede la luce Slaves And Masters, un disco decisamente mediocre e privo di mordente, che ci consegna un gruppo a disagio con le sonorità più moderne e in chiaro declino creativo. Un po' per la delusione , un po' per il cadere della ricorrenza del 25° anniversario del gruppo, si riesce a riportare "a casa" Gillan; The Battle Rages 0n (1993) sancisce così l'ennesima ritorno alla "Mark II", con un disco energico ma poco ispirato. Le liti interne sono ormai la norma, e dopo un altro pressoché inutile disco dal vivo (Come Hell Or High Water) c'è di nuovo un abbandono: ma stavolta a lasciare è Blackmore, che da lì a poco intraprenderà il nuovo discusso progetto denominato Blackmore's Night.
Il sostituto del tenebroso chitarrista è Steve Morse, esperto e preparatissimo musicista americano (ex Dixie Dregs e Kansas), col quale vengono pubblicati nel '96 Purpendicular e due anni più tardi Abandon, godibili ma irrimediabilmente nostalgici.

La sensazione è che questi nuovi dischi siano poco più di un pretesto per tornare in tour, dove i Deep Purple raccolgono ancora folle entusiaste. La fissazione per gli anniversari colpisce di nuovo i nostri, che riprendono il Concerto For Group And Orchestra nella ricorrenza del suo trentennale; per l'occasione vengono suonati con l'ausilio dell'orchestra anche alcuni brani presi dalle carriere solistiche dei singoli componenti, e vi partecipano alcuni vecchi compagni di avventura (Sam Brown e Ronnie James Dio).

Nel 2003 i Deep Purple tornano con il nuovo Bananas, che si ricollega alle ultime produzioni, segnalandosi soprattutto per l'assenza del vecchio leader Jon Lord, qui sostituito da Don Airey.

Si trascina così stancamente la carriera di un gruppo fondamentale dell'hard-rock, ancora insuperato dall'infinita schiera di eredi più o meno legittimi che hanno tentato di ripercorrerne le orme.

Nel 2005, Rapture Of The Deep tenta di invertire la tendenza, finendo per sorprendere per freschezza e piglio creativo. E' vero che nel ritmato orecchiabile "Girls Like That" si ripresenta quella specie di refrain anni 80 di cui Bananas era pieno, ma questo disco ha una marcia in più che va cercata e apprezzata pur limitatamente al contesto dell'album stesso. L'intro di "Money Talks", infatti, sembra riportarci indietro nel tempo insieme ai ghirigori sparsi qui e lì dell'hammond del talentuoso Don Airey, che, sorprendentemente, sembra non far rimpiangere l'ultimo John Lord.
"Wrong Man" è un brano tipicamente à-la Purple, con riff e organo a dialogare tra loro con potenza e destrezza, accompagnati da un Gillan particolarmente ispirato che torna a provare gli acuti. E' strano, poi, come lo spirito di Blackmore ancora aleggi su questo gruppo. La title track ricorda molto le scale orientaleggianti usate dal chitarrista nei Rainbow, creando un sound progressive decisamente accattivante.
I Purple sanno rallentare e "Clearly Quite Absurd" è una ballata atipica degna di un Eric Clapton più grezzo. Poi il blues cadenzato di "Don't Let Go" e il sintetizzatore di "Back To Back" spezzano leggermente la tensione del disco. Ian Paice ricorda di essere un grande batterista e il suo tribale à-la Bo Diddley apre "Kiss Tomorrow Goodbye" che ricorda molto la produzione dei tempi di "Fireball". Dopo il rock modesto di "Junkyard Blues", spetta a Gillan il compito di chiudere questo album. "Before Time Began" è una specie di suite in crescendo con una prestazione molto carica e passionale del cantante che, per un attimo, riesce quasi a fermare il tempo ormai passato.








11/02/2007 15:39
 
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foo fighters
Dopo la morte di Kurt Cobain, per il batterista dei Nirvana, Dave Grohl, tutto sembrava finito. All'epoca sembrava difficile azzardare che questo giovane e precisissimo drummer avrebbe da lì a poco intrapreso una nuova, e fortunata, carriera musicale e artistica.
I Foo Fighters (dal nome che venne dato, dall'aviazione americana, a dei bizzarri fenomeni di luce nel cielo durante la seconda guerra mondiale) sono in tutto e per tutto una creatura di Dave Grohl, una perfetta macchina commerciale, in cui emergono appieno, finalmente, la voglia di successo, le doti di leadership e, perché no, il talento del batterista dei Nirvana.

Nell'ottobre del 1994 Grohl inizia, completamente da solo, accompagnato dal produttore di fiducia, Barrett Jones, le registrazioni del suo primo album, che come titolo riporterà semplicemente quello del gruppo: Foo Fighters, appunto. Utilizzando un paragone azzardato, si potrebbe dire che se Cobain era il Lennon dei Nirvana, Grohl era il McCartney. Nelle sue canzoni, infatti, è impossibile individuare quell'urgenza, quella violenza e disperazione presenti nel songwriting del leader dei Nirvana.
Il primo album dei Foo Fighters si apre con il pop-punk, che più melodico non si può, di "This Is A Call", per poi continuare con un pezzo più tirato come "I'll Stick Around". "Big Me" è una canzoncina pop della durata di poco più di due minuti, che spalancherà a Grohl le porte del circuito mainstream (e una buona fetta di questo successo va pure al famoso e esilarante videoclip che accompagna questo singolo, in cui viene preso in giro un famoso spot delle caramelle "Mentos", qui trasformate in "Footos"). "Alone+Easy Target", forse il pezzo più riuscito dell'album, fa affiorare tutte le precedenti esperienze musicali di Grohl. Se "For All The Cows", dall'andamento jazzato, è il brano più "cobaniano" dell'album (vedi il ritornello), tracce più violente come "Good Grief", "Wattershed" e "Weenie Beenie" si rifanno alla scena hardcore-punk di Washington Dc. "Floaty" è una ballata che esplode però nel ritornello, tra fragori chitarristici e incedere delle batteria. "Oh George" è, come "Big Me", un brano pop sostanzialmente inutile, forse il più superfluo del disco, mentre "X Static", lenta e d'atmosfera, vede la partecipazione alla chitarra di Greg Dulli degli Afghan Whigs.

Il primo album dei Foo Fighters, ovvero di Dave Grohl, sorprende per energia, gusto melodico e freschezza. Registrato in poco più di una settimana, balza tra una traccia e l'altra da un genere musicale all'altro, mischiandoli insieme, e rivelando al mondo l'incredibile affabilità e cultura musicale di Grohl, finora rimasta oscurata dietro l'imponente figura di Cobain. Certo, il difetto principale è una certa mancanza d'identità, una disomogeneità dell'insieme, che impedisce all'album il vero salto di qualità. Ma l'intento di Grohl non è mai stato quello di rivoluzionare il rock.
Anche i timori di molta critica, di un'eccessiva, nonché inevitabile, influenza dei Nirvana nel sound dell'album vengono scongiurati. Certo, c'è chi ha voluto trovare nei testi delle canzoni (che per inciso sono abbastanza criptici e misteriosi) evidenti richiami alla fine dei Nirvana e alla morte di Cobain, ma Grohl mette le cose in chiaro sin dall'inizio, urlando a squarciagola: "I'll stick around and learn from all that came from it".

Ancora alla ricerca di una label che distribuisca il disco (poi pubblicato da Capitol Records insieme alla Roswell Records), Grohl mette in piedi un vero e proprio gruppo, che lo possa supportare nel corso dei concerti promozionali dell'album. La scelta dei componenti della band ricade su Nate Mendel e William Goldsmith, rispettivamente basso e batteria del gruppo emo Sunny Day Real Estate, e infine su Pat Smear, storico ex chitarrista dei Germs, che aveva in precedenza collaborato anche con i Nirvana nel loro "Unplugged".
Uscito nell'estate del 1995, il primo album dei Foo Fighters viene accolto abbastanza bene dalla critica, che però non risparmia eccessivi (e un po' fuori luogo) paragoni con i Nirvana. Il successo di pubblico arriva invece con il terzo singolo "Big Me", che complice il video già citato, trasforma Grohl & Soci in una sorta di antitesi del gruppo di Kurt Cobain.
I Foo Fighters, sempre disponibilissimi con i fan, sono gli idoli dei ragazzini, le "rockstar della porta accanto". Con i loro video spassosi, le melodie catchy e l'appeal di Grohl, si sono guadagnati sin dall'inizio uno zoccolo duro di ammiratori, anche tra i giovanissimi. Il lunghissimo tour promozionale li porta in giro per tutto il mondo, e nel '96 il gruppo realizza appositamente per la colonna sonora del serial tv "X Files" una bellissima cover di "Down In The Park" di Gary Numan.

All'inizio del '97 i Foo Fighters sono pronti a rimettersi al lavoro su un nuovo album (verrà chiamato The Color And The Shape), ma Goldsmith abbandona il gruppo per incomprensioni con Grohl. Sarà lo stesso Grohl a suonare la batteria in (quasi) tutte le canzoni dell'album.
La produzione questa volta spetta a Gil Norton (già collaboratore di Pixies, Counting Crows, Patti Smith); il risultato è senza dubbio il lavoro migliore del gruppo.
Dopo lo scherzetto melodico di "Doll", che fa presagire il peggio, ma in realtà dura poco più di un minuto, è "Monkey Wrench" a portarci nel vivo dell'azione, con una perfetta canzone punk-rock di stampo adolescenziale (tant'è che il testo parla di un ragazzo che vuole vendicarsi di tutti i torti subiti; è diventata di culto, nel corso dei concerti, la parte finale, in cui Grohl urla rabbioso "I was always caged and now i'm free"). "Hey Johnny Park" è un rock melodico, con aperture rabbiose sul ritornello (ormai uno stilema dei Foo Fighters), che nel testo rimanda esplicitamente alla figura del compianto Cobain.
Il dittico "My Boor Brains"-"Wind Up" è una vera scarica d'adrenalina. Sono i pezzi più violenti dell'album, in cui però affiora sempre un appiglio catchy e melodico, caratteristico di Grohl. "Up In Arms" è un brano più facile, che dopo una parte iniziale lenta e romantica si trasforma in un punk melodico dalle parti dei Buzzcocks. "My Hero" è uno dei pezzi più complessi dell'album (prendete come esempio l'incedere ritmico), nonché uno dei più struggenti. E' quasi impossibile ascoltando le parole di Grohl non pensare, ancora una volta, allo scomparso leader dei Nirvana.
E' tempo per tirare un po' il fiato, ecco arrivare allora un altro scherzetto semi-acustico, la spassosa e dolce "See You". "Enough Space" è smaccatamente grunge, mentre "February Stars", il brano meno convincente della raccolta, è un ballatone lento che esplode nel finale, ma suscita più sbadigli che pelle d'oca.
"Everlong", capolavoro dell'album, è un'altra perfetta (nella sua semplicità) canzone pop-rock in perfetto stile Dave Grohl. Strofa lenta e sussurrata, ritornello più violento e struggente, le liriche che parlano ancora una volta di un amore impossibile. Questo brano, scelto poi come singolo, si rivelerà uno dei più grandi successi del gruppo, grazie ancora una volta a un eccezionale videoclip, questa volta firmato dal visionario Michel Gondry.
"Walking After You" è una tenera canzone d'amore dal suono quasi lo-fi, davvero commovente e sincera, insieme a "Everlong" l'apice dell'album. Chiusura in bellezza con "New Way Home", che parte con una melodia beatlesiana per concludersi con un finale in crescendo, in stile Police, che diventa sempre più violento e veloce.

L'album esce nel maggio del '97 e ottiene un ottimo successo, sia dal punto di vista delle vendite che della critica.
Nel frattempo, per un nuovo componente della band (Taylor Hawkins, già batterista per Alanis Morissette) uno vecchio abbandona il gruppo: è Pat Smear a lasciare i Foo Fighters, per motivi non ben precisati (in realtà c'è di mezzo una relazione con Jennifer Youngblood, fidanzata di Grohl): prende il suo posto Franz Stahl, ex Scream, gruppo in cui militava anche un giovanissimo Dave Grohl.
Inizia il tour promozionale per The Color And The Shape, e contemporaneamente un breve periodo di corteggiamento da parte di Hollywood nei riguardi del gruppo. Nel corso del '97, i Foos realizzano infatti vari brani appositamente per alcuni tra i più grandi blockbuster dell'anno: la ninna nanna "Dear Lover" per la colonna sonora di "Scream 2", una nuova (e superiore) versione di "Walking After You" per il film di "X Files" e l'ambiziosa "A320" per "Godzilla".

La permanenza di Stahl nella band è davvero breve. Il chitarrista viene presto estromesso dal gruppo per "problemi di compatibilità"; in compenso l'amicizia tra Dave e Taylor Hawkins diventa sempre più forte.
Il successivo album dei Foo Fighters, There Is Nothing Left To Lose, vede quindi Grohl occuparsi personalmente di tutte le chitarre. Registrato con il produttore Adam Kasper, il terzo lavoro del gruppo risulterà il più complesso sinora, e quello che richiederà la lavorazione più lunga, ma in definitiva non è del tutto riuscito.
La prima parte è assolutamente la più convincente, e si apre con "Stacked Actor", una delle cose più rabbiose registrate dalla band, e che scatenerà le ire di Courtney Love, vedova di Cobain, che si rispecchierà nel testo della canzone, dedicato alla falsità delle rockstar tutte look e niente contenuti.
"Breakout" è un altro perfetto singolo di punk-pop, che entra in testa dopo un solo ascolto. Scelto come secondo singolo, questo pezzo sarà poi inserito anche nella colonna sonora del film dei fratelli Farelly, con Jim Carrey, "Io, me & Irene". Ancora una volta il videoclip che accompagna la canzone si rivela esilarante, con Grohl in versione nerd-liceale, che per far colpo su una ragazza tenta di imitare le smorfie di Carrey.
"Learn To Fly", la canzone che porterà l'album in cima alle classifiche di mezzo mondo, è probabilmente uno dei pezzi migliori dell'album, con quel ritornello memorabile e il finale in cui Taylor Hawkins presenta al pubblico un bel biglietto da vista, prodigandosi in tecnicissimi passaggi di batteria (che in quest'album assume uno spessore addirittura superiore rispetto ai lavori precedenti, come per esempio in "Next Year", dove lo strumento di Hawkins ha un volume incredibilmente più alto rispetto a quello dei compagni).
"Gimme Stitches" ha un riff alla Stones e promette bene, ma non decolla mai, e risulta essere alla fine abbastanza monotona. "Generator" è in pieno Foo Fighters Style: un rock melodico ed energico dal ritornello scacciapensieri. "Aurora", brano più ambizioso dell'album (il preferito da Grohl), è una sofferta ballata che si conclude con un crescendo ad effetto davvero emozionante. Con "Live In Skin", rock banale, poco melodico, che si dimentica in fretta, inizia la seconda, e deludente, parte dell'album. "Next Year" è una ballata sfacciatamente pop à-la di McCartney, che ricicla la stessa idea per quasi cinque minuti; "Headwires" è il solito pezzo tipico del gruppo, in cui a una strofa lenta segue un ritornello "urlato" e più veloce. "Ain't In The Life" è un'altra ballata, che sembra fare il verso alla stupenda "Walking After You", ma che, a parte il bel testo, risulta soporifera. L'album si conclude con "M.I.A.", altra canzone che punta il dito contro le falsità del mondo musicale, che tuttavia annega in una melodia poco memorabile e in un arrangiamento eccessivamente scarno.

Insomma, questo terzo album rappresenta per i Foo Fighters un passo avanti e uno indietro. Se finalmente la band appare compatta e unita (per la prima volta l'album è firmato da tutta la band e non dal solo Grohl), con un vero, e ottimo, batterista, i vertici di The Color And The Shape sembrano lontani. La produzione è ridotta all'osso, con chitarra, basso e batteria in primo piano, e il guizzo creativo (probabilmente derivato dalla presenza di Pat Smear nel gruppo) dell'album precedente si è tramutato nel lavoro decisamente più commerciale (leggasi banale) sfornato dal gruppo di Grohl.

Il quarto album dei Foo Fighters, One By One, subisce diversi ritardi, dovuti in primo luogo al ricovero forzato di Hawkins, in seguito a una overdose da alcol e antidolorifici, e successivamente a una completa ri-registrazione dell'album (la prima versione venne giudicata troppo "artificiosa" e debole), con Nick Raskulinecz come produttore. Grohl, non vuole assolutamente cambiare batterista ed è disposto ad aspettare tutto il tempo necessario affinché Hawkins si riprenda. Nel frattempo tornerà dietro la batteria per l'album "Songs For The Deaf" dei Queens Of The Stone Age, uno dei lavori più acclamati del 2002.
I Foo Fighters, con l'aggiunta di un nuovo chitarrista, Chris Schiflett, dei No Use For A Name, sono così pronti a ritornare in studio, e sfornano il singolo "The One", incluso nella colonna sonora del film "Orange County", primo assaggio di quella che sarà una vera e propria nuova fase nella carriera della band.

Il "gruppo della porta accanto", i simpatici e goliardici protagonisti di video come "Learn To Fly" e "Monkey Wrench", hanno lasciato spazio a un team di musicisti più maturo ed aggressivo, che con One By One vuole dimostrare a tutti, pubblico e critici, di non essere solamente la copia sbiadita dei Nirvana.
L'album però è riuscito a metà, e se da un lato è impressionante il livello tecnico dei quattro musicisti, dall'altro è impossibile non rilevare un'evidente mancanza di idee e originalità. La permanenza di Grohl nei Queens Of The Stone Age si sente in canzoni come "Low", che però sembrano una versione più soft di quelle del gruppo di Homme e Oliveri. Meglio allora i pezzi in pieno stile Foo Fighters, come "Times Like These" o "Lonely As You", e meglio ancora il singolo portante "All My Life", teso e violento, quanto inaspettato da parte di Grohl e compagni.
"Have It All", altro pezzo nelle corde del gruppo, si segnala per un finale quasi metal, mentre "Disenchanted Lullaby" ha un ritornello alla Kiss che non delude. In "Tired Of You", notevole e malinconico ballatone acustico, compare Brian May alla chitarra. "Halo", "Overdrive" e il rock classico di "Burn Away" non aggiungono nulla di nuovo, mente la conclusiva e lunga "Come Back" ha un ritornello epico e una parte centrale acustica che stupiscono per coraggio e potenza (stiamo sempre parlando del gruppo di "Big Me"...).
La produzione di Raskulinecz conferisce al sound del gruppo un appiglio decisamente più sporco e convincente rispetto a There Is Nothing Left To Lose, ma, in un certo modo, soffoca sotto un tappeto sonoro quasi assordante, le migliori idee del gruppo.
Insomma, i Foo Fighters sono alla ricerca di quella maturità che per anni la critica non ha riconosciuto loro. E così anche i video divertenti e puliti, caratteristici del gruppo, vengono abbandonati.
One By One è l'ennesimo successo dal punto di vista delle vendite, ma, come il precedente album, è accolto da critiche contrastanti.

Un altro tour in giro per il mondo si rivela per il gruppo un'occasione perfetta per maturare ulteriormente, migliorarsi, imparare dai propri errori.
Con l'ingresso in pianta stabile di Shiflett, i Foo Fighters sono finalmente (al quarto album!) una band completa, e intenzionata a scrivere l'album più importante della loro carriera.
In Your Honor è un doppio album, composto da una prima parte rock, e una seconda completamente acustica; d'altronde i Foo Fighters da sempre hanno dimostrato una notevole abilità nel confezionare brani acustici, talvolta ri-registrando versioni solo chitarra e voce dei loro pezzi più famosi, quasi migliori degli originali. Sempre prodotto da Nick Raskulinecz, il disco esce nel giugno del 2005.
Il progetto risulta troppo ambizioso per il gruppo, e se compaiono diversi brani memorabili, altrettanti sono facilmente dimenticabili.
La prima parte della tracklist, quella rock, è meno interessante e presenta classici pezzi punk-rock come "No Way Back", quasi una nuova "Monkey Wrench", con un ritornello-killer, e altri più originali, come la ballata dagli echi psichedelici di "Best Of You".
"D.O.A." è un altro singolo perfetto che riporta alla mente gli Offspring, così come "Resolve", in cui la struttura pieno-vuoto tipica dei Foos si presta all'ennesima canzone d'amore pronta a scalare le classifiche. "In Your Honor" e "End Over End", con i loro ritornelli da stadio, non nascondono la profonda influenza dei Queen, mentre le più pestate "The Last Song" e "Free Me" riecheggiano di nuovo i Queens Of The Stone Age (con maggior convinzione rispetto a One By One).
La seconda parte dell'album è quella con più sorprese ed è piena di collaborazioni; in primis, quella con John Paul Jones dei Led Zeppelin, che suona il piano in "Miracle", la migliore canzone dell'album (e forse dell'intera storia del gruppo), e suona il mandolino in "Another Round". La psichedelia (un po' alla Led Zeppelin, un po' alla Beatles post-"Rubber Soul") dilaga in "On The Mend" e "Friend Of A Friend", mentre "Over And Out" e "What If I Do?" sono tipiche ballate d'amore alla Grohl, semplici quanto accattivanti.
La jazzata e dolce "Virginia Moon" è cantata da Grohl insiene a Norah Jones, mentre il folk psichedelico di "Razor" vede alla chitarra l'amico Josh Homme. "Cold Day In The Sun", con il suo speranzoso motivetto pop degno dei Beatles, è uno dei brani più riusciti del disco, ed è cantato da Taylor Hawkins (che rivela notevoli capacità anche in veste di vocalist), sostituito alla batteria da Grohl.

Questa volta, con grande gioia di Grohl, che considera l'album il migliore sinora realizzato dal gruppo, la critica internazionale è quasi unanime nel riconoscere ai Foo Fighters la tanto agognata maturità artistica.

Difficile dire che cosa riserverà il futuro a una band come i Foo Fighters. Semplici e onesti, questi quattro ragazzi, come già detto in precedenza, non mirano a cambiare la storia della musica, ma aspirano a un riconoscimento maggiore da parte della critica.
Inutile paragonare Grohl e Cobain, due personaggi agli antipodi. E' inutile, forse, per il gruppo, prodigarsi in progetti per loro troppo ambiziosi, come l'ultimo album. Forse dovrebbe essere Grohl per primo a smettere di paragonarsi al compianto compagno dei Nirvana (circola in rete un famoso video in cui Grohl, completamente sbronzo, esclama "Io ero nei Nirvana, la band più importante del mondo!", quasi volesse dimostrare a tutti il suo valore).
Bene, se in questi anni Mr. Grohl ha dimostrato qualcosa, è di essere un simpatico e abile songwriter, privo del genio maledetto di Cobain, ma abbastanza furbo da rimanere in giro ancora per un bel pezzo, facendo quello che sa fare meglio. Divertirci.








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