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Biografie e Foto

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2007 15:39
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metallica
I Metallica, con i Rolling Stones e pochi altri, sono tra i pochissimi casi di gruppo di musica popolare la cui fama è direttamente proporzionale alla propria importanza storica. Il primo atto della rivoluzione dei Metallica (1981, Los Angeles, California) consistette nel cambiare la cultura di massa dei giovani, più o meno disadattati, losangelesi. Costoro, a inizio anni 80, tutto sommato passarono da una cultura hardcore a una cultura heavy-metal (con questo i Metallica importarono di fatto la NWOBHM in America, che all'epoca male la conosceva e peggio la considerava). Già il fatto che l'hardcore e l'heavy-metal (thrash, speed) siano entrambi fenomeni losangelesi dimostra quanto il secondo sia debitore del primo (per quanto riguarda il rapporto tra punk e metal in Inghilterra si consideri che vi si inserì di mezzo il fenomeno newyorkese dei Ramones). Il secondo atto della rivoluzione dei Metallica consistette nel diffondere in tutto il mondo il linguaggio thrash e speed, sul quale si baserà ogni forma di metal anni 80 e 90. Il terzo atto della rivoluzione dei Metallica consistette nel diffondere in tutto il mondo un atteggiamento nichilistico interiore, di contro a un atteggiamento socio-politico pacifista e umanitario. Il quarto atto della rivoluzione dei Metallica consistette nel fare e disfare l'heavy-metal: nel 1983 istituzionalizzarono il thrash e lo speed, nel 1984 fusero i due stili in quello che è il sound heavy-metal vero e proprio, nel 1991 riportarono questo sound a più involute architetture rock (segno della fine del genere). Tecnicamente i Metallica partirono da quello che grazie a loro fu riconosciuto essere l'invenzione dei Motorhead (il thrash-metal), giunsero a quella che propriamente è la loro invenzione (lo speed-metal) e convogliarono il tutto in un granitico sound che è il solo a rivendicare propriamente l'appellativo di heavy-metal. L'album speed e thrash è Kill'em All. L'album heavy-metal, come sintesi e superamento dei sue stili precedenti, è Ride The Lightning. I Metallica si presentarono come il gruppo rock più violento, veloce ed estremo (sotto tutti i punti di vista) di sempre. In realtà, per quanto giovanissimi, erano innanzitutto dei profondi conoscitori della storia della musica rock. A posteriori è possibile dire che quello che allora fecero i Metallica non fu altro che trarre le conclusioni inevitabili dalle premesse che si posero loro davanti. Queste premesse andavano dal satanismo dei Black Sabbath all'edonismo degli Aerosmith (ovviamente passando per Deep Purple e Rush), ma di fatto erano incentrate sui gruppi metal e punk inglesi, nonché su quelli hardcore californiani di fine 70 e inizio 80. I Metallica fecero programmaticamente quello che i Motorhead avevano fatto d'istinto: fondere metal e punk. Solo che all'epoca e nel luogo dei Metallica, il punk si chiamava hardcore ed era qualcosa di sostanzialmente diverso dal parente inglese. In Inghilterra, mentre la NWOBHM ostentava il purismo metal, non solo il metal riprendeva dal punk (Motorhead), ma anche viceversa: Exploited, Discharge, Anti-Nowhere League furono una delle più importanti fonti d'ispirazione per i Metallica. Metallica che avevano un gran da fare per non lasciarsi sfuggire i prodotti più estremi ed eterodossi del metal britannico che nel 1980 era in fibrillazione. Eterodossi perché più che guardare alla NWOBHM in senso stretto (Judas Priest, Iron Maiden, Saxon, Rainbow), i Metallica nacquero grazie alla spinta di gruppi polemici rispetto al movimento prevalente in Inghilterra: oltre ai Motorhead, soprattutto e a vario titolo l'avanguardia di Venom e il retrò dei Diamond Head furono indispensabili per gli americani. Americani che in patria non avevano una tradizione metal: se i vecchi hard-rocker Lynyrd Skynyrd e Blue Oyster Cult potevano insegnare qualcosa sull'architettura dei brani, erano i nuovi hard-corer Misfits e Dead Kennedys a insegnare la legge della violenza e soprattutto della velocità d'esecuzione. Dall'Europa, Accept e Mercyful Fate erano infine fulgidi esempi di come il metal fosse a un sol passo dal raggiungere il suo versante più heavy. Ma la rivoluzione più importante dei Metallica fu di scindere l'identificazione sino allora ineliminabile nel rock più di qualità, ovvero quella tra arte e vita. Con i Metallica, il metal diviene un genere di consumo non perché sia fatto in modo commerciale, bensì perché tratta rivoluzioni che non sono rivoluzioni, ossia tratta di norme etico/esistenziali da dosare nella vita quotidiana tanto dell'impiegato quanto del parlamentare. Che poi i Metallica siano stati il culto, primariamente, di chi non ascolta il metal ma di chi vive il metal o per il metal, significa solo che ogni oggetto con più funzioni consente anche fruitori con più caratteri. A onore dei Metallica spetta poi il fatto di essere stati sempre dei rocker puri e crudi, senza nessuna concessione a effetti in studio, d'orchestra, elettronica o altro. I loro brani - anche i più mediocri - sono concepiti prima dal vivo e in garage, poi e casomai messi in studio e su disco. Ascoltarsi un live dei Metallica o un disco da studio è quasi lo stesso. E solo i grandi del rock riescono in questo. Un discorso a parte merita quanto segue. Di solito i metallari sono avversi al punk. E questo con tutte le ragioni culturali e musicali. Spiace quindi dover dire agli attuali metallari (come ai loro padri) che osannando i Metallica osannano anche il loro nemico, ossia il punk; o meglio: l'hardcore. I Metallica, la quintessenza dell'heavy-metal, sono heavy (speed, thrash) e non solo metal (Judas Priest, Iron Maiden), proprio perché hanno imparato la lezione dell'hardcore. Essere seguaci dell'heavy-metal significa, per quanto indirettamente, essere dei seguaci dell'hardcore. La storia sociale in questo ci dà ragione. Los Angeles (o tutto il mondo del rock duro?), prima dell'avvento dei Metallica era sostanzialmente divisa tra hardcorer e metallari. I secondi ritenevano i primi dei mocciosi e questi a loro volta dei buffoni gli altri. Ma che cosa voleva dire essere dei metallari nella Los Angeles dei primissimi anni '80? Esserlo nella Londra coeva significava essere dei seguaci della NWOBHM. A Los Angeles, dove Iron Maiden e compagnia troveranno veri proseliti solo dopo che i Metallica avranno sfondato (all'epoca era anche difficile, per il losangelese che avesse voluto, procacciarsi dischi europei), essere dei metallari significava avere come modello di vita l'hard-rock di Motley Crue, Ratt e Van Halen. La situazione losangelese è sintomatica: non è che hardcore e metal siano inconciliabili (altrimenti non sarebbero stati possibili i Metallica), ma che solo un certo tipo di metal, quello classico, è inconciliabile con l'hardcore. Gli hard-corer losangeliani erano in reciproca intolleranza con i metallari concittadini, perché questi in realtà erano degli hard-rocker, degli epicurei, più vicini alla cultura del rock n' roll che a quella nichilista degli anni 80. I Metallica, portando a mezzo hardcore il metal negli anni 80, non solo lo estraniarono formalmente dal vecchio hard-rock anni '70, ma lo ripulirono contenutisticamente di tutto un retaggio inconciliabile con la nuova temperie negativa, pessimistica e apocalittica (ed è questa ed in questo senso "new wave") dei nascenti anni 80 (temperie che l'hardcore già a suo modo aveva interpretato). I Metallica a Los Angeles spazzarono praticamente via le due frange del rock duro, convogliandole in una sola; nel resto del mondo inondarono di prassi hardcore i vari metallari che pure di questo né si rendevano conto né questo avrebbero sottoscritto. Nel maggio del 1981 in occasione di un concerto di Michael Shenker (storico chitarrista di Scorpions e UFO) a Newport Beach, in California, il diciottenne chitarrista James Hetfield (Los Angeles, 1963: con una situazione familiare difficile) incontra per la prima volta il coetaneo batterista Lars Ulrich (Danimarca, 1963: faceva parte di un fan club dei Motorhead ed era in stretti rapporti con i Diamond Head). Ai due si aggiungerà, alla chitarra solista, il ventenne Dave Mustaine (California, 1961). Nel marzo del 1982 i Metallica, che non hanno ancora un bassista fisso, esordiscono dal vivo al "Radio City" di Anaheim e ipotecano il proprio futuro suonando di spalla ai già classici Saxon al leggendario "Whiskey A Go-Go" di Los Angeles. Il 14 giugno 1982 i Metallica appaiono per la prima volta su vinile con il brano "Hit The Lights", nella compilation della Metal Blade, Metal Massacre, voluta dal giovanissimo Brian Slagel. La Metal Blade è tra le primissime label indipendenti americane a incentrarsi sul metal (la maggior parte delle label indipendenti americane dell'epoca si davano all'hardcore). Teoricamente, potremmo dire che la Metal Blade porta dall'Inghilterra il metal (NWOBHM) e lo fa sbocciare nell'heavy-metal (thrash-speed) americano. Di fatto però, se è vero che solo grazie alla Metal Blade (e a riviste, che comunque anche in America iniziavano a girare, tipo "Metal Mania") i gruppi inglesi trovarono proseliti negli Stati Uniti, tuttavia è solo grazie ai Metallica che il metal divenne "heavy". Non a caso, gli altri gruppi di quella comunque mitica compilation (quali Black 'N' Blue, Bitch, Cirith Ungol) erano sostanzialmente hard-rock e in ogni caso vicini alla NWOBHM dei Saxon più che a quella (d'avanguardia e davvero metal) degli Iron Maiden. Nel tempo, usciranno una dozzina di compilation Metal Massacre, paradossalmente tutte incentrate su quello che derivò da quel solo brano d'avanguardia proposto dai Metallica in mezzo a tante mediocrità ora dimenticate. Nel luglio dell'82, sull'onda dei primi successi sotterranei, i Metallica (intanto, non senza intelligenza, definiti "i Ramones dell'heavy-metal") incidono il demo No Life 'Till Leather (riedito nel 1997 come sorta di bootleg dal titolo The Early Days) contenente quasi tutto il materiale che sarà convogliato l'anno successivo nel primo album. Nel mentre, però, il factotum della Metal Blade, Brian Slagel, resosi conto che a Los Angeles il glam retrò dei Motley Crue e dei Ratt era più apprezzato dell'innovativo sferragliamento dei gruppi di Metal Massacre, decide di portare la sua carovana di band sino a San Francisco. A San Francisco i Metallica trovano in Cliff Burton (ex Trauma; California, 1962 - Svezia, 1986) quello che cercavano: un bassista capace di reggere la velocità e la violenza del loro sound. Così dal 28 dicembre 1982 quello che ora è un quartetto stabile si trasferisce con tutta la strumentazione al 3132 di Carlson Boulevard, nel centro di El Cerrito. Il 1983 è l'anno dei Metallica. Abbandonati Brian Slagel, la Metal Blade, Los Angeles e San Francisco (dove per un motivo o per l'altro non erano riusciti a racimolare quella decina di migliaia di dollari che all'epoca servivano per una registrazione professionale), i Metallica furono chiamati dalla parte opposta dell'America, nel New Jersey, lontano da ogni capitale musicale, da un allora sconosciuto Johnny Zazula, giovane e abbiente appassionato di metallo che aveva fondato l'etichetta indipendente "Megaforce" (di lì a poco destinata al mito). È durante il viaggio da San Francisco al New Jersey che Mustaine rompe col resto del gruppo: suonerà per l'ultima volta il 9 aprile al "The Ritz" di New York; nel futuro lo attenderanno i suoi, e suoi e basta, Megadeth. Il 16 aprile Kirk Hammet (New York, 1962, ex Exodus: uno dei gruppi più importanti del metal, che per colpa del forfait di Hammet rischiò di sciogliersi e tardò il proprio esordio di un paio d'anni) debuttò con i Metallica a Dover, New Jersey. Hammet è un chitarrista più speed e meno thrash di Mustaine: di fatto nei Metallica sarà la chitarra solista (Hammet appunto) a fare speed e quella ritmica (Hetfield, tra l'altro per natura più vicino a questo stile) thrash. Ma il fatto è che Hammet non è un compositore, mentre Mustaine sì: con Hammet al posto di Mustaine, Hetfield e Ulrich ebbero un compositore in meno e un servizievole esecutore in più. Hammet suona speed metal, ma da sempre la sua passione (come ogni chitarrista-solista) sono stati i virtuosi dello strumento (Hendrix, Satriani, Page), specie se con un tocco latino (Santana, Jerry Garcia). Il 10 maggio cominciano le registrazioni dell'album d'esordio (durarono 6 settimane). Il 25 luglio esce Kill'em All, che vende 7000 copie in un attimo (non poche, vista la distribuzione indipendente e il genere, da una parte avanguardistico e dall'altra mal visto in America). Ma fu in Inghilterra, la patria del metal classico, che i Metallica, com'era ovvio, trovarono al momento i consensi maggiori: furono visti (e lo erano) quali innovatori, sul lato estremo, di un genere, la NWOBHM, che rischiava di chiudersi su se stesso. Quello che gli inglesi non videro e non potettero vedere furono i rapporti che i Metallica avevano con lo spauracchio dei metallari, ossia il punk. Se i Metallica (e l'heavy-metal come speed e thrash) sono inspiegabili senza l'hardcore americano, lo sono altrettanto senza tutti quei fondamentali gruppi inglesi passati alla storia come punk-metal: Discharge (i più notevoli ed estremi), Exploited, Anti-Nowhere League, Rudimentary Peni. Gruppi nati, nell'unica patria del metal e del punk (i due stili rock più influenti di sempre), a testimonianza del fatto che non era più possibile, sotto uno stesso tetto (Londra), far finta di non conoscersi. Del resto punk e metal sono fenomeni da circoscrivere nella fine degli anni 70. Col punk-metal, con la coincidenza degli opposti, quei basilari gruppi d'avanguardia (e perché non si parla mai d'avanguardia in campo hard?), vollero far notare anche come si fosse giunti agli anni 80.

Kill 'Em All.1983, 10 brani, 51:03. Produttori: Jon Zazula (poi con Antrax e Overkill), coadiuvato da Paul Curcio (ex Mojo Men; compositore storico e oggi produttore per Santana) e Mark Whitaker (amico-menager, ex jazz-rock Woodenhead, poi produttore di Exodus). Nel 1988, quando Mtv decise di lanciare i Metallica e l'heavy-metal, raggiunse il posto 120 in Billboard (nel 1989 è disco d'oro). Se l'importanza si misura con l'influenza, questo è l'album metal oggettivamente più importante di sempre e uno tra i più importanti album rock di sempre, avendo istituzionalizzato da solo un sottogenere come l'heavy-metal di vitale importanza per il rock. Infine, quali altri album possono vantare pressoché l'invenzione di due stili rock (qui thrash e speed)? Tale album tuttavia non sarebbe stato possibile senza i Motorherad, che ne costituiscono, a tutti i livelli (dalle musiche, ai testi, ai titoli delle canzoni, a quello dell'album stesso che pare tradurre Overkill), l'imprescindibile fonte d'ispirazione. Furono i Motorhead ad inventare il thrash-metal. I Metallica a rendersene conto e a tramutarlo prima nello speed e poi nell'heavy-metal tout court. L'album apre una nuova era anche per le dimensioni e il numero dei brani. Negli anni 70, il metal (come l'hard-rock) si era per lo più attenuto ai parametri degli 8 brani per 40 minuti.
Normalmente si considera la prima facciata dell'album thrash e la seconda speed (per le differenze tra i due stili, rimando alla mia storia del metal).
L'età media dei componenti del complesso che ha concepito ed eseguito Kill 'Em All era inferiore ai 20 anni.
Tutti i brani di questo album sono classici e fondamentali per il rock e per i generi di pertinenza. Tutti i brani sono eseguiti con la medesima perizia, passione ed efficacia da un gruppo solo all'inizio dell'analisi della propria forza dirompente. Si rasenta l'eccesso per il troppo entusiasmo e frenesia.
Il 3 febbraio 1984 i Metallica inaugurano il primo tour europeo suonando per varie date di spalla ai Venom (tra i loro padri, padri che oggi fanno da figli ai figli suonando, quando vengono ammessi, loro di spalla! . d'altra parte al nostro mondo si permette anche che Frank Black suoni di spalla ai Placebo!). I Metallica rimarranno in Europa per quasi tutto il 1984. A Copenaghen registrano, sempre con Zazula, il secondo album. Ride The Lightining esce in America, per la Megaforce, il 27 luglio 1984. Vende subito e solo negli Stati Uniti, 75.000 copie (cifra spropositata visto il contesto e la label indipendente: nel 1985 raggiungerà il numero 100 in Billboard e sull'onda del successo di Master Of Puppets il 5 novembre 1987, Ride The Lightnining sarà disco d'oro in Usa, nel 1989 di platino). Poi, i ventunenni Metallica, da gran signori, pretendono da Zazula i soldi che la persona a cui devono quasi tutto non aveva. Quindi, dopo averlo neanche un anno prima cercato, lo licenziano e lasciano alla sua Megaforce.

Ride The Lightning. 1984, 8 brani, 47:47. Produttori Flemming Rasmussen (Cedar Walton, Cat Stevens, Rainbow, Blind Guardian) coadiuvato da Mark Whitaker. Ride the Lightining è il primo album heavy-metal della storia. Ossia il primo album a fondere thrash e speed in un qualcosa di diverso che da questi stili deriva, ma che a essi non è riducibile. L'heavy-metal si configura come un metal articolato, complesso e ricco d'assoli quale lo speed, eppure violento, nichilistico, compatto e diretto quale il thrash. A chi non si intende di metal, ma soprattutto a chi dice di intendersi di metal, tali cose, tali distinzioni sogliono apparire astruse. La loro verità, oltre che dalle orecchie, è dimostrata da un lato dalle dichiarazioni degli stessi Metallica, dall'altro dall'abbandono del gruppo da parte dei fan della prim'ora (che non vi sentono più il thrash, il Mustaine, i Megadeth, l'hardcore insomma). In questa sintesi di thrash e speed sta quell'heavy-metal base a partire dal quale si avranno non solo tutti i sottogeneri metal avvenire (dal death, all'epic, al grind), ma soprattutto il raggiungimento di un sound a decibel mai sentiti che consente di avere (a ogni gruppo rock, anche se non fa metal) una scala espressiva smisuratamente più ampia. Con Ride The Lightining i Metallica, appena un anno dopo dalla prima, apportano una nuova, radicale e definitiva rivoluzione, per quanto sia una continuazione della precedente. Con Ride The Lightining si accentua, con quella della musica, l'epicità dei testi. Ne deriva un'ambientazione non più metropolitana, ma galattica. Un senso non più di morte o rottura, ma di eternità o martellamento su di uno stesso punto. Ride The Lightining è l'album programmaticamente più importante dei Metallica dopo Kill'em all: può considerarsi come il secondo album fondamentale della storia del metal. Da qui sino al 1991, per sette anni, i Metallica non diranno nulla di nuovo: e quando il nuovo arriverà sarà, di fatto, la fine del metal. Il 21 febbraio 1986 esce Master Of Puppets per la maior Elektra. L'Elektra (la casa discografica di Doors, Television, Cure, Bjork, Motley Crue, Queen, Tracy Chapman) fu fondata a New York nel 1950 da Jac Holzman per promuovere nuovi musicisti folk e jazz. Dal 1969 è nella Wea con la Warner e l'Atlantic (e dal 1973 acquistata dall'Asilium). La Warner è l'unica "major" oggi a essere ancora americana. Master Of Puppets era stato registrato l'anno prima, sempre a Copenaghen, ma con tutte le comodità, i vezzi e i ferri del mestiere più alla moda, delle rockstar. Vende subito 700.000 copie (10 volte l'album precedente, già considerato un record di vendite), poi (4 novembre) diventa disco d'oro e rimane in classifica 72 settimane (28 luglio 1988, disco di Platino in Usa ). Sebbene in Usa sia ancora dominante il glam di Ratt e Motley Crue, l'heavy-metal comincia a essere preso in seria considerazione. Master Of Puppets è allo stesso tempo il migliore e meno importante dei primi tre album dei Metallica (quelli artistici, cioè). Il migliore perché è il meglio suonato e ha le composizione più sapientemente e compiutamente confezionate; il meno importante perché non è comparabile all'inventiva d'avanguardia di Kill'em All, e si limita, per quanto sapientemente, a ribadire i concetti (di forma e contenuto) appresi in Ride The Lightning. Ciò non toglie che rimanga una pietra miliare dell'heavy-metal. Il 27 settembre 1986, in Svezia, in un incidente all'alba sul pulmino del gruppo, muore a 24 anni Cliff Burton. Il 28 ottobre i Metallica ingaggiano Jason Newsted (MI, 1963, ex Flotsam & Jetsam): più freddo e meno comunicativo di Burton. Simbolicamente potremmo dire che l'arte dei Metallica si spegne in quella sfortunata mattina svedese. Per far uscire 5 album di materiale inedito, i Metallica impiegheranno 18 anni (1986-2004). Saranno 18 anni di successo e d'inutilità.

Il 10 agosto 1987 esce The 5.98 Ep - Garage Days Revisited (Top 30 americani, Top 20 inglesi: 7 dicembre disco d'oro Usa). Si trattò di un'operazione col precipuo scopo commerciale. Ma a posteriori è molto interessante. Primo perché inaugura, per quanto involontariamente, il post-metal. Infatti i Metallica hanno, a venticinque anni, già detto tutto ciò che avevano da dire d'importante. E con loro il metal ha in gran parte già detto, nel 1987, ciò che aveva da dire (il thrash e lo speed, propriamente, da tempo si erano esauriti). Secondo, troviamo oggettivati pressoché tutti gli stili che hanno reso possibile il fenomeno Metallica, nonché la profonda (sino al maniacale), vasta e non scontata conoscenza da parte di Hetfield e Ulrich della storia del rock. Si tratta di 5 cover (e il concetto di "citazione" è la quintessenza del "post-", sia esso metal o rock o artistico e culturale in genere): dalla NWOBHM di Diamond Head 1981 ("Helpless"), dal thrash di Holocaust 1983 ("The Small Hours"), dal techno-dark di Killing Joke 1980 ("The Wait"), dall'hard-rock di Budgie 1971 ("Crash Course in Brain Surgery"), dall'hardcore di Misfits 1982 ("Last Caress/Green Hell"). Questo Ep influenzerà il grunge in generale e Nirvana e Alice In Chains in particolare.

...And Justice for All(1988): 65:10, 9 brani. Produttore: Flemming Rasmussen.

È l'album del successo mondiale per venticinquenni in pista da almeno cinque anni (nel 1988 raggiunse il n. 6 in Billboard, poi disco d'oro e di platino in Usa). Successo che risponde alla sterilità artistica. I Metallica hanno detto tutto quello (ed era molto) che avevano da dire. Ora eseguono spartiti, come suonatori di strada straordinariamente pagati, per impiegati annoiati o ragazzini incoscienti che vogliono godersi quello che Mtv fa passare come heavy-metal e, sacrilegio estremo, dal tranquillo salotto di casa.

...And Justice for All è un album così impeccabile ed esteriore che non dice nulla. Non è neanche il migliore album metal dell'anno (la concorrenza si è fatta su più fronti agguerrita: Death, Death Angel, Jane's Addiction, Queensryche), sebbene ovviamente sia sul podio, sebbene, se lo avesse fatto un qualsiasi altro gruppo, si sarebbe, e a ragione, dovuto dire un capolavoro. Non è un lamentarsi, né voler essere ingiusti nei confronti di chi, al quarto album e dopo tanti capolavori, continua tutto sommato senza fronzoli né troppi compromessi verso la propria strada. È semplicemente un constatare. Lo stesso Hetfield ammetterà il mezzo passo falso, su quest'album che, come si dice in gergo, "non suona". Troppo lungo, troppo indigeribile, troppo monotono: è eccesso, ma pare senza sostanza. I dischi dopo il '91 non parranno neanche. I capolavori, di cui prima c'era l'imbarazzo della scelta, si riducono a uno, per quanto notevole: è lo strumentale "To Live Is to Die" (Burton/Hetfield/Ulrich) [9:48], alla memoria di Burton; sposa tutta la più genuina teatralità (leggi possanza) dei tempi dell'ispirazione, con un retrogusto melodico (in acustico) di sconforto infinito che, ormai al di fuori di storia e mondo, pare inchiodare noi soli davanti al nulla. Aggiungo, per magnanimità a quell'uno un altro brano: "Dyers Eve" (Hammett/Hetfield/Ulrich) [5:12]. È talmente concitato e dinoccolato che rende tutto sommato partecipi: un'altra "Battery", sperando che con due batterie ci si diverta di più. Non solo: un interessante (e col cuore in mano) canto di Hetfield. Un applauso se lo merita. Due, considerando che è stata dimenticata.
Metallica(1991): 62:16, 12 brani. Produttore Bob Rock (Mötley Crüe, The Cult, Cher, Bon Jovi, Aerosmith, Bryan Adams ). Con quest'album i Metallica diventano star, come Madonna o Springsteen. Musicalmente cambiamo per la terza volta genere: dopo speed/thrash e heavy-metal è la volta di una sorta di metal-rock. Di un metal più involuto che barocco. Più costretto nei tempi, nelle dinamiche e nelle medietà del rock medio che libero nelle suite metal. Nonostante l'uomo che più si è arricchito alle spalle dei Metallica, un vile marpione con spirito artistico pari a un maiale, Bob Rock, il gruppo riesce a dare l'ultima prova degna di sé. Smettendo i panni metal, si guarda al futuro ponendosi il problema (pur sempre in termini heavy) della vecchia canzone rock o, a dirla tutta, country proprio. Ne risulta un lavoro più unico che raro nella storia che non è né hard-rock né rock, ma è come se un gruppo metal rifacesse brani di Johnny Cash. Siamo nell'era del grunge, e i Metallica si sentono più vicini a questa che comunque è cultura americana, rispetto al fanatismo (comunque più artistico) del metal (death, grind, gothic) scandinavo o europeo in genere (dai Carcass agli Entombed). In fondo, il grunge è il corrispettivo per la propria generazione dell'hardcore, e le parentele tra Metallica e hardcore sono sempre state evidenti. In fondo, Hetfield ha avuto modo di dichiarare i Nirvana come l'ultimo, vero gruppo rock. Nonostante Bob Rock, nonostante l'orchestra sinfonica di Michael Kamen, nonostante i cinque videoclip, nonostante l'aver voluto far sborsare all'Elektra per le sole registrazioni un milione di dollari, nonostante il concerto a Mosca dinanzi a 300.000 persone (per inciso i Metallica sono uno dei gruppi rock più presenti in tour in assoluto: avranno passato tre quarti della loro vita in viaggio!) Metallica, tra il popolino il loro album più celebre (numero 1 in Usa, UK, Canada, Australia; 5 in Italia; top 5 in Europa), resta un album di gran qualità
Load (1996): 14 brani, 74:59. Produttore: Bob Rock. Dopo il '91 (l'età media del gruppo è 28 anni) i Metallica non hanno più una vita artistica. Tour colossali, prestazioni live memorabili, tecnica impeccabile, sound stratosferico come il loro cachet. Passano cinque anni: abbiano ora dei trentenni con la forza, con le braccia per lavorare, non quanto hanno lavorato sino allora (15 anni), ma il doppio. Potrebbero puntare ai 60 anni e a essere tra i gruppi più longevi della storia del rock. Ma già i 5 anni di silenzio dimostrano il temuto: una sterilità senza pari e senza rimedio. Ora, più per se stessi che per i soldi, più per mettersi in discussione che per crogiolarsi su quanto ottenuto, si inerpicano alla ricerca di se stessi: mai incerti su questo, sempre sicuri e dediti all'esposizione del proprio sgomento esistenziale, è il momento in cui anche questo non dice più nulla e non sa dire più nulla. Agonizzano i Metallica rifugiandosi in 75, spropositati, interminabili, minuti di musica: musica che è quel rock-metal sviluppato dal '91 per l'occasione contestualizzato invece che nel lato oscuro del proprio io e del mondo, in atmosfere neo-western, sudiste gangsteristiche. È il corrispettivo metal del Nick Cave dal blues più metropolitano e autocompiaciuto. Il gruppo cambia per la quarta volta approccio stilistico e contenutistico. L'album è un pretestuoso rispolverare ora l'esotismo violento di "Wherever I May Roam", ora il sinfonico di "The Unforgiven", ora gli eccessi di pesantezza di "Don't Tread On Me". Verbosità senza pari, cattedrali nel deserto, immani costruzioni barocche senza fondamento è ciò che ne risulta. Opera più difficile da sopportare che da comprendere. Ciò corrisponde ai pregi e ai difetti di certi baracconi di Tom Waits. Anche affascinante (soprattutto se fosse voluto!), ma alla fine indigeribile e sterile, non perché ha come soggetto la sterilità, ma perché ne è vittima impotente. È un ...And Justice for All per l'epoca e il sound di Metallica, del quale eccede in negativo tutti gli estremi allora giustificati e sopportabili. I Metallica, il gruppo che più di tutti, inventando l'heavy-metal (che è derivazione hardcore più che hard-rock), ha affrancato il rock dal blues, adesso sopravvive riproponendo i Rolling Stones. Al modello dei Motorhead si è sostituito quello di Nick Cave (il mito della maturità di Hetfield). Nell'epoca in cui il metal, da anni esauritosi, si crede nuovo solo esasperando ossimoricamente la propria efferatezza (i generi capofila del '96 sono da una parte death, gothic, dall'altra progressive, dall'altra il metal da strada di Korn e Deftones), i Metallica esasperano solo la propria mole, alla fine suonando non come metal, ma come un rock n' roll espressionistico, deformato, fuso. Dal vivo, in pratica, i nuovi brani non vengono considerati. Nel 1996 Load raggiunse il n. 1 in Billboard. I brani, di cui non ce n'è uno meglio dell'altro perché sono descrittivi e quantitativi e non significanti e qualitativi.

Reload (1997): 13 brani, 75:56. Produttore: Bob Rock.
Considerato un album fatto con gli scarti del precedente (per le cui sessioni i Metallica avrebbero approntato 150 minuti di materiale), e uscendo l'anno successivo a quello rischiando d'esserlo (vedasi il titolo e i tempi di produzione dei Metallica), a conti fatti risulta intrinsecamente diverso. La forma è sempre quella del rock-metal di Metallica, ma rispetto a Load si passa dal tessuto riflessivo, senile, vissuto, tra prateria e metropoli, ad atmosfere ora più spensierate ora più apocalittiche e comunque mai concentrate sulla storia ma contese tra il divertimento rock n' roll e la seriosità epica.
Load e Reload non hanno un valore diverso da And Justice For All. Solo che mentre quello faceva del manierismo sull'heavy-metal di Master Of Puppets, questi lo fanno sul rock-metal di Metallica. I Metallica fecero un egregio lavoro nel 1991 perché cambiarono genere. Peccato che dopo non sarà loro più possibile cambiare genere, avendo finito tutti gli spettri di possibilità. Da qui la mediocrità di Load e Reload. Nel 1997 raggiunse il n. 1 in Billboard.

Garage, Inc.1998. Produttore Bob Rock.
Questo mastodontico album di cover ha nel rock una significativa importanza storica, di cui i critici non si sono avveduti, limitandosi a denunciare l'aspetto commerciale dell'operazione. Per prima cosa con la cover, con il manierismo, denuncia la fine e del rock e del metal a cui non rimane altro da fare che riproporre la tradizione, meglio, come qui, anziché nasconderla dietro pseudo-canzoni, palesarla nella riproposta di vecchi brani. Secondo consentì, grazie alla planetaria popolarità dei Metallica, da una parte a tutta una serie di gruppi storici di raggiungere un bacino più ampio di utenza e, come conseguenza, di farsi riscoprire col loro materiale originale dimenticato (da qui tutte le ristampe del caso a soddisfare la nuova domanda); dall'altra a migliaia di giovani o meno giovani di avere le referenze di gruppi fondamentali e di elevata taratura a cui non avrebbero mai posto mente. Infine, Garage, Inc. svela una volta di più tutti gli ingredienti dell'heavy-metal: dall'hardcore all'hardrock.
Per inciso, i Metallica, da grandi storici del rock che sono, scelgono, per le loro cover, un brano più memorabile e dimenticato dell'altro. Dopo il 1991, nel rock, sono da apprezzare molto di più i Garage, Inc. che i Vitalogy. Discharge, Diamond Head, Mercyful Fate, Holocaust, Budgie, Blitzkrieg, Anti-nowhere League, Sweet Savage, sono tutti più o meno grandi gruppi che rinascono grazie ai Metallica. Ma anche Motorhead, Misfits, Killing Joke e Thin Lizzy possono tirare il fiato di un nuovo interesse. Nel 1998 Garage, Inc. raggiunse il n. 2 in Billboard.

S&M(produttore Bob Rock) è uno squallido live del 1999 con la San Francisco Symphony Orchestra, dove si può sentire tutto il cattivo odore della retorica americana. Il disco raggiungerà il n. 2 in Billboard.
Nei primi anni 2000 il mediocre e nevrastenico Newsted lascerà i Metallica (per Voivod e Echobrain); sostituito da un personaggio esteriormente singolare (sembra un aborigeno vestito da ska-punk) con la aleatoria funzione di iniettare nuova linfa all'atmosfera stantia dei Metallica: è Robert Trujillo (ex Infectious Grooves, Suicidal Tendencies e Ozzy Osbourne).

St. Anger(2003). Produttore Bob Rock.
Se gli ultimi album dei Metallica potevano meritare indifferenza, questo fa proprio stomacare. Addirittura si appella al nu-metal, all'ultima pseudo-trovata dei figli più bastardi dei Metallica. Questo lavoro, che merita infamia, è la prima prova, veramente negativa, dei Metallica. La paura è che non sia l'ultima. Viene addirittura chiamato Bob Rock (ormai quinto membro del gruppo) a comporre parte del materiale: il peggiore dei produttori si rivela ovviamente il peggiore dei compositori. Senza nulla da dire, senza nulla da fare, ciò che rimane ai Metallica è infangare la propria memoria e garantirsi il numero 1 in Billboard (vedi i tragicomici singoli "St. Anger", "Frantic" e "The Unnamed Feeling").








07/04/2007 15:31
 
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iron maiden
Le "Vergini di metallo" si sono formate a Londra nel 1976 per volere del bassista Steve Harris (classe '57): la data e il luogo, vincoleranno il gruppo in ogni sua dimensione. Per quanto risemantizzato, formalmente e non, l'hard rock di Deep Purple, Black Sabbath, Queen ed Uriah Heep, il proto-metal di Budgie e Judas Priest, i Seventies sono stata la zavorra che ha confinato gli Iron Maiden nel classic-metal (anche se non è poco aver, di fatto, inventato il metal!) impedendo loro di fare il salto di forza compiuto poi dai Metallica verso la dimensione speed e trash, cioè heavy. All'epoca (e fino ad oggi, in larga parte) metal e punk rappresentavo due modi, talora opposti, di rapportarsi alla vita e alla musica: l'acuirsi di tale incomunicabilità tra generi in Inghilterra ha portato gli Iron Maiden al "classic" metal; mentre la programmatica sintesi dialettica dei medesimi in America ha lanciato Motorhead prima (che, anche se inglesi, qui operavano) e Metallica poi e definitivamente sulle vie dell' "heavy metal". Fu l'anti-punk a confinare gli Iron Maiden nel "classic". Fu l'hardcore ha dare l'idea ai Metallica dello speed e del thrash. Steve Harris era uno di "quei poeti che non hanno mai scritto niente", infatuato dal caratteristico sogno-Black Sabbath di trasfigurare la realtà cittadina (londinese, i sobborghi di Londra) in una dimensione da paesaggio dell'anima; suo fu invece lo spostamento di baricentro di quest'anima da una dimensione maledetta a una malefica, cioè da una prevalenza di nichilismo a una di sado-masochismo inteso come speculazione sulle forze dell'occulto e del male (retaggio di tutta una tradizione folklorica autoctona), non per annientarsi ma per vivere e voler vivere. I sopravvissuti agli anni '80 questo hanno fatto, e Steve Harris è stato il primo a capirlo e attuarlo: non a caso il suo, prima ancora di British Metal, è New Wave. Nello spirito. Nell'afflato. Cosa tanto sottaciuta quanto fondamentale, gli Iron Maiden sono stati il primo e forse l'unico gruppo a rappresentare, in ambito metal, concettualità, stilemi, dimensioni e manifesto del mondo new wave anni '80. Quel medesimo mondo di Joy Division, Siouxsie and the Banshees (prima ondata di fine '70 - inizio '80) e di Smiths (seconda ondata di metà '80, fulmine a ciel sereno quando la prima new wave sembrava già imbalsamata). Da qui, prima ancora che dai Black Sabbath, i cimiteri, il dark, l'ambient infernale, la necrofilia, in un eterno dilemma tra attrazione e repulsione sia per il Bene sia per il Male. Una religiosità pagana, superstiziosa e panteistica, richiesta come sfogo liberatorio ed evasione dall'asfissia borghese cittadina, è alla base del movimento (non a caso) New Wave (= il ritorno ai tempi ancestrali coi mezzi moderni: e anche quando prevalgono questi, il confinarsi in uno stato, pur'anche futuristico, comunque "spleeneticamente" vissuto). Tutto ciò è alla base degli Iron Maiden. Dopo la periferia e le topaie di alcolizzati, operai e prostitute, i conflitti adolescenziali; dopo aver visto e vissuto tutto questo con gli occhi ed uno stile British prima di tutto, poeticamente horror/ fantasy poi, esistenzialmente maledetto e ribelle infine; dopo aver raggiunto la fine degli anni '70 Steve Harris usò questa come base per lanciarsi dal sogno sognato al sogno vissuto. Lo accompagnarono due chitarre (Dennis Stratton e Dave Murray), una batteria (Clive Burr) e una voce (Paul Di'Anno). Tutti ampiamente fantasma.

Iron maiden (EMI, 1980).
"Prowler" è lo stacco chitarristico solitario iniziale, poi accompagnato dai singulti di una doppia cassa, infine collimato dalla voce più evocativa dell'intero metal. Sono 10 secondi, ma bastano per essere consci della catapulta subita dalle nostre orecchie e menti in un altro mondo. Cioè due: uno quello realmente fantastico della storia impressionistica narrata; l'altro, quello musicale, nuovo in quanto nei precedenti 13 anni di vita del rock (dal Velvet Underground del '67) non si era mai sentito niente del genere in termini di potenza, velocità, nera chiarezza.
"Remember tomorrow" è uno di quelle rare preziosità dinanzi alle quali la categoria di "genere musicale" appare stupida e goffa. Un fantasma, uomo, ma ha la stessa delicatezza di un arto femminile, è pronto ad accompagnarti in un qualche convento abbandonato (da anime umane . perché è ricco zeppo di spiriti maligni). Nel '700, e in campo letterario, fu inventata la "poesia-horror". Questo brano la rifonda (e supera largamente in potenzialità evocativo-comunicativo-espressionistica). La cadenza di quest'armonioso può essere solo definitiva e totalizzante in un elegantissimo abbraccio di morte.
"Running free": dimostra la grandezza di questo gruppo in queste stagioni: pur un brano violento e devastantemente veloce e sincopato come questo, riesce a non perdere nulla in termini di evocatività: l'evocare (ma il pennello ha, evidentemente, un'altra mano, un'altra epoca, un'altra aria, di quello dei Black Sabbath) la sceneggiatura della spedizione notturna in un cimitero gravido di pericoli da brivido.
"Phantom of the opera" annulla ogni dubbio su un'eventuale meschinità riguardo al campo d'azione del gruppo, e apre lo scenario (con un incedere funambolico di supremi fraseggi chitarristici sostenuti da una prova assoluta e seminale della batteria) su una landa russa innevata e folle di giorni accecati dal bianco-neve e notti accecanti dal nero impenetrabile; come dire dal freddo del ghiaccio al caldo dell'inverno; dalla perdizione nelle steppe alla reclusione per essere sacrificati tra i bollori e i pentoloni di un qualche laboratorio di occulto totalitarismo. Musicalmente - ma ciò vale per tutto l'album e da qui per gli altri album del gruppo - ancora un pezzo inedito: nel metallo distribuito dalla chitarra, nella convinzione e complessità sinfonica del suono, nella velocità dell'esecuzione, nel canto smaliziato come proveniente da un genere istituzionalizzato da decenni (quando è qui che si istituzionalizza per la prima volta), nella sezione ritmica rivoluzionaria ad ogni passo.
Lo strumentale "Transylvania" (e ringrazi, questa terra, il presente disco se folle di giovani l'hanno inondata dall'80 in poi) si configura come la ritirata dalle regioni di cui si diceva prima. Visionariamente efficace in ogni sua più piccola parte, riesce nel miracolo di ottenere ciò a ritmi e velocità che difficilmente lasciano lo spazio ad altro che il fine a se stesso. Ma è anche di più: l'invito a vedere con gli occhi saturi di tali evocazioni la realtà presente, la realtà che a ognuno si ostenta. Ecco l'intelligenza e l'universalità dell'operazione, matura come poche altre. Fra queste poche c'è stata quella dei Pink Floyd, che, almeno per i primi due album, furono fondamentali per i Maiden: non solo per il motivo para-musicale appena detto, ma anche per la musica stessa (il piglio sinfonico, tanti effetti di chitarra, la dilatazione del basso, la voce attaccata alla nuvola delle macerie).
"Strange world" nella sinuosità del suo pathos sembra il frutto d'esperienza da vecchi del mestiere: e gli Iron Maiden sono alla prima, anche se assoluta, prova.
"Charlotte the Harlot" continua col dimostrare il "non-fare di struzzo" degli Iron Maiden. La realtà (una puttana: ma che puttana!: il soggetto se n'è, modernamente e bohemienisticamente, innamorato) è spiattellata in faccia con tutta la sua evidente crudezza, per assimilarla, poi, e sopportarla, il pharmacon, sublime, di una nenia-re King Crimson (vedi "Epitaph" di "In the Court of the Crimson King").
"Iron Maiden" è il capolavoro supremo dell'album e della produzione Iron Maiden tutta; come un blues, c'è tutto: l'afflato mistico dell'avventura cimiteriale, la potenza e velocità per l'epoca inaudite sfoggio delle innovazione operate dai Maiden, un ritornello telluricamente prossimo alla "Paranoid" sabbathiana, ma ad essa grandemente superiore perché, appunto, porta dalla terra (il tellurio) al cielo (qualunque esso sia). L'assolo di chitarra in vertiginoso crescendo, l'irrompere della batteria a grancassa metronoma: un manifesto, must assoluto di tutta la storia del rock, in cui merita di diritto un posto tra i suoi 10 brani più rappresentativi; e il tutto in 3'.35'', il che è dire: proprio perché soli 3'.55'', perché senza divagazioni dalla concentrazione poietica. D'altra parte il titolo non poteva lasciare dubbi.

Killers (EMI, 1981)
Dopo essere arrivati fino al quarto posto nelle classifiche inglesi con l'album d'esordio, gli Iron Maiden ci riprovano con una formazione che vede la chitarra di Adrian Smith (ex-Urchin) al posto di quella di Stratton: il suono ne acquista in potenza con riff più secchi e ritmiche mediamente più compatte.
"The ides of March" (ovvero: come potrebbe apparire la morte di Giulio Cesare spostata e rivissuta nell'Inghilterra new wave?) è il capolavoro dell'album: uno strumentale di 1'.46'',eppure seminale per la storia del metal a venire (se ne ricorderanno subito l'anno dopo i Judas Priest in "The ellion", a dimostrazione di come i gruppi rivoluzionari finiscono per influenzare anche gli ispiratori della loro stessa rivoluzione): potente, marziale, squadrato, eppure appassionantissimo.
"Wrathchild" attacca con un basso tipicamente anni '80; per il resto è un inno claustrofobico e notturno, con odori e fumi non discostantisi dal primo album; il brano (vocale) più riuscito del presente lavoro.
"Murders in the Rue Morgue", ovvero come potrebbe apparire il mondo di Edgar Allan Poe spostato e rivissuto nell'Inghilterra new wave, ha i primi 20 secondi da applausi e commozione, in un giro di chitarra tra i più sublimi e toccanti della storia del rock. Poi parte power; un power non all'altezza dell'intro e, così, si rovina.
"Another life" confina lo sperimentale combo di percussioni introduttivo nell'atmosfera tenebrosa di una vita angosciata da presenze maligne; pur ad alti livelli si avverte un po' di speculazione (= irrigidimento tematico) sulla sincerità naif degli esordi.
"Genghis Khan" (ovvero di come potrebbe apparire il mondo cinese/mongolico spostato e rivissuto nell'Inghilterra new wave: quando "l'ultimo imperatore si tinge di anni" '80 e con lui il mondo: è l'inevitabile gioco della Weltanschauung) è uno strumentale che si distende come un tappeto o una serpentina in una composizione che raggiunge il suo apice nella fuga in nero che stimola.
"Innocent exile", se ce ne fosse stato bisogno, consacra ulteriormente le doti istrioniche di Paul Di'Anno: evocativo e subliminale come pochi, raffinato ed elegante, fra i primi a introdurre l'"urlo anarchico" e catartico in una storia, quella dell' "urlo" che vede protagonisti da Iggy Stooge, il primo in assoluto, a Udo degli Accept a Wendy William dei Plasmatics e che trova origine nel mondo anarchico per eccellenza: il punk, dal quale si propagherà al grunge.
"Killers" è tutto basato sull'urlo di Di'Anno, e sembra non esserci cosa migliore su cui basarsi: basta quello e un basso "basso" per fare atmosfera. Poi, le geometrie della batteria fanno il resto: un resto che basta a rendere il brano in questione un classico (pur con una punta di autoindulgenza in quello che tuttavia i Maiden hanno fatto voto di diseredare: l'assolo chitarristico fine a se stesso/jam session). La tematica del pezzo è quella tipica del sadismo come sfogo di un fondamentale masochismo derivante dal Male (oggettivo prima che soggettivo/esistenziale) manicheamente permeatore dell'universo. La messa in musica delle borchie e delle pelli (di quelli che poi saranno chiamati "metallari") che, tra primi, i Maiden hanno adottato. Ai Maiden tuttavia manca una cosa: la cattiveria. Le copertine dei Maiden furono allora e lo sono ancor oggi, con una significativa sfasatura rispetto al contenuto musicale non poi così estremo, le più violente, orripilanti, sadico-masochistiche mai viste: in quella di Killers ad esempio ED troneggia con la sua pelle scuoiata, un'accetta insanguinata e una maglietta tirata dalle mani della vittima appena squartata. Eppure il gruppo è più elegiaco che anarchico. Questa ne è una peculiarità pregevole e che pochi hanno: il nichilismo porta a due cose; o al disinteresse di tutto o alla cattiveria fine a se stessa; la cattiveria, poi, può derivare da un interesse eccessivo verso quegli aspetti del mondo per accaparrarci dei quali abbiamo bisogno della suddetta. Ecco, ai Maiden, fondamentalmente innocui sognatori, manca tutto questo: mancanza riempita dal sublime poetico.
"Prodigal son" (poi ripresa da Jeff Buckley in "Grace") tentativo di rilettura della parabola evangelica in chiave new wave non lascia il segno. "Purgatory" dà l'avvio a un altro stilema poi ripetuto e ripetuto: veloce, con una sezione ritmica sconvolgente, manca tuttavia di una effettiva qualità contenutistica. Meglio "Drifter" dove Di'Anno troneggia con un timbro violentemente rap: alterna il melodico al sincopato funky, poi una sferragliata di chitarra rimette le cose apposto (cioè dritte dritte verso l'inferno): i vari Stratovarious odierni ne faranno man bassa per la loro "ispirazione". Siamo lontani, comunque, dai capolavori.

The number of the beast (EMI, 1982)
Sulla cresta dell'onda, pronto a fare il grande botto commerciale, prossimo alla celebrità universale, sprovincializzandosi con un tour mondiale appena conclusosi, Paul Di'Anno, inspiegabilmente, lascia (o viene estromesso da) il gruppo. Volendo esagerare potremmo dire che la lunga storia degli Iron Maiden finisce qui. Il proseguo difatti, oltre ad essere scevro del raffinato animo di Paul Di'Anno, vedrà null'altro che un progressivo perfezionarsi e intensificarsi del suono che, sempre più pulito e intenso (anche sulla scorta delle bordate heavy metal che richiedono necessariamente, per essere almeno aggiornati, un aumento di decibel), si dividerà tra pezzi ballata e pezzi power o dividerà un pezzo metà ballata metà power. Le tematiche poi pur variando sempre, in chiave concept-story, di ambientazione in ambientazione rimarranno (nel bene e nel male) arenate a quelle iniziali: e anzi le esaspereranno di retorica e artificiosità per essere più eclatanti e così vendere di più. Ciò è dovuto non solo a una sempre più spiccata mentalità manageriale di Harris, ma anche all'innesto dell'ex Samson (rozza band proto-metal che tentava di rifare il verso a Judas Priest e Kiss) Bruce Dickinson, oggi considerato un mito vivente e oggettivamente primo nella classifica d'influenza tra i cantanti heavy metal: tuttavia con la sua tecnica perfetta, il suo sbraitare teatrale, la sua retorica e pletorica risulta anni luce (poeticamente) inferiore e meno degno di stima dell'esistenzialista Paul Di'Anno, unico fra l'altro, tra i membri di una band di "bravi ragazzi", a, soprattutto dopo aver lasciato questa, perdersi in dipendenze di vario genere. The number of the beast è universalmente considerato il miglior album del quintetto londinese. Di fatto è il più celebre. Sempre di fatto, con quest'opera, il metal prende una volta per tutte la sua rotta definitiva e inconfondibile: il suono maturo e (allora) d'avanguardia di quest'album traccia tale rotta, oltre ad avviarla. Da un punto di vista compositivo, tuttavia, contrariamente ai primi due lavori (per la gran parte costituiti da canzoni indistintamente di alto livello) si assiste qui per la prima volta nella storia del gruppo a una più o meno volontaria svendita alla mediocrità: incredibilmente l'album alterna brani assoluti a "brani-riempitivo" sciatti, banali e noiosi. Partendo dal peggio è da dire che: "Invaders" si crogiola in un autocompiaciuto (è autocompiacersi il principale difetto di Dickinson e, se non di più, anche di Harris) metal-medio-power che invoca a rotta di collo ma senza credibilità apocalittiche invasioni di esseri mostruosi. "The prisioners" tenta di rivalersi in un'inquadratura più marziale ma il testo scandalosamente sciocco ("I'm not a number, I'm a free man") e l'andatura coralmente podistica danno 6 minuti di noia. "Run to the hills" scende nel campo dei buoni sentimenti alternativi (la dedica è straniantemente, dato l'ambiente new wave, ai pellerossa delle riserve) qualificandosi celebre quanto odiosa, il trillo del ritornello inneggiato da Dickinson è poi stomachevole ("run for your life..": l'unico motivo per correre è per scappare da questo cesso!). "Gangland" (e i Maiden in stile "Gangland" ne faranno a decine di brani) non ha nessun senso di esistere e infatti non significa nulla, del quartetto tuttavia è la meno peggio, sostenuta se non altro da un sincero arrembare.
Tra il bene e il male sta "The number of the beast", cronaca di un sogno demoniaco introdotto da un brano dell'Apocalisse di S.Giovanni: considerata da critici e fan un must ineguagliato, tuttavia a parte l'urlo notevolissimo di Dickinson nelle parti centrali ha poco da dire. Lo stesso "666" (di cui i Maiden fecero anche un toccante video in stile horror-Eighteen con tanto di nebbia artificiale, zombie di cartapesta e fuseaux elasticizzati), se è vero che entra nell'iconografia metal, è anche vero che era presente in campo musicale già dal 1971 quando gli Aphrodite's Child gli dedicarono addirittura un album (senza parlare del "Their satanic majestic" rollingostoniano). Venendo al meglio troviamo il meglio del meglio. Tre capolavori ciascuno dei quali basterebbe a giustificare un album a sé di sola spazzatura. "22 Acacia Avenue" si presenta con uno degli attacchi di chitarra più coinvolgenti della storia, procede epicamente esistenziale con Dickinson che si supera come cantore di una perdizione meditata a mezzo del sentimento poetico o situazionale suscitato dal contesto del brano (the continuing saga of Charlotte the Harlot): si ritorna al succo più profondo dei Black Sabbath, riuscendo come non mai a trasfigurare la realtà, il presente (la camera fatiscente e mesta di grigiore industriale/operaio di una prostituta/amante), verso un'evasione che dà senso e valore (pur illusorio) a quella come all'esistenza tutta. "Children of the damned" è ancora tematicamente Black Sabbath (vedi "Children of the grave"): una ballata credibilmente desolata che si innalza a vertici sinfonici di solitudine riassunti dal caldo abbraccio di Dickinson che qui coglie davvero nel segno. Il riff centrale è Kiss, ma questi sono superati dalla prevalenza dell'aspetto contenutistico ed emozionale su ogni altro. Il più piccolo e ultimo adolescente dei grigi e infetti sobborghi londinesi era il "Children of the damned", e lo furono a migliaia, da soli, nelle loro squallide e polverose camerette. "Hallowed be thy name" sarà il capolavoro nel capolavoro. Al pari (per valore) dei migliori Black Sabbath (quelli di "Iron Man", "Sabba Cadabra", "Black Sabbath"); al pari dei migliori exploit degli album precedenti che, con i suoi 7 minuti rischia di superare. L'intro ritmato dallo spaglio dei piatti, l'assolo di chitarra che è una falcata di tutta una vita, la voce imperiosamente sposata con un complesso rispettato nell'espressione di ogni singolo componente; rallenta, divaga, sempre commovendo, riparte velocissima, ancora una digressione, due lampi, uno slide, e finisce con una corona apocalittica. Uno di quei tre o quattro brani che hanno fatto il metal (gli altri sono "Child in time", "Black Sabbath", "Overkill", "The call of Ktulu").

Piece of mind (EMI 1983)
Clive Burr è sostituito da Nicko McBrain ed è una perdita insanabile. Piece of mind, pur curatissimo al limite della perfezione d'assemblaggio, è un album di transizione; un classico, come ogni album degli Iron Maiden, con una copertina gialla e nera tra le più riuscite, che vede protagonista un ED in una dimensione temporalmente fantasy, misto cioè di medioevo e futuro, con catene e camicia di forza: ora ha problemi di pazzia cerebrale (la psiche, malata, il filo rosso della situazione). L'album contiene 9 brani d'atmosfera, adatti per la camera nell'albergo Dracula o in un altrettanto spettrale castello scozzese, senza nessun picco (pur se i vari "Where eagles dare", "Revelations", "Flight of Icarus", "The trooper" sono stati spacciati per classici). Un album di contrasti, luci ("Quest for fire", con falsetto da operetta) e ombre ("Die with your boots on"), notte e giorno, con varie sperimentazioni ("Still life"). Anzi, è l'album più vario dei Maiden che quando si placano, si placano sempre più mentre quando picchiano, picchiano sempre più, alternando spesso schematicamente i due toni nella medesima canzone (vedi "To tame a land", da cui piglieranno a piene mani tutti i milioni di gruppi power metal a venire).
Il suono si potenzia ulteriormente verso l'heavy, all'interno del quale si stabilizza in un medio-basso in termini di decibel; la tematica, almeno per ora, passa da storie "operaie" a "nobili" (cioè con soggetti e ambientazione, per l'apparizione delle forze del male, non più case popolari e bastardi ma regge e figli cadetti).

Powerslave (EMI 1984)
Adesso siamo in Egitto, in quel colonial-revival anni '80, tra James Bond, Frazer (maestro romantico di civiltà perdute) e il ragazzino-peste americano in gita alle piramidi. I Maiden continuano nella loro iconografia di teschi e morti secche, di vestiti laceri e talismani incastonati in catene: scisso definitivamente il lavoro (apparire dannati) dalla vita (angelicamente rispettosa), riescono a conservare un afflato/sentimento primitivamente artistico che li fa sembrare tanto più seri quanto più si calano nei meandri di storie folklorico-magiche, tra tribù di un'Africa mediterranea che appare come un "Nuovo Mondo". Per la lunghezza e l'aspetto sinfonico, i brani seguenti sono alla base di tutto il suono-power anni '80 ma soprattutto '90 e, finora, '00.
"Aces High" è veloce, violenta e perfetta; anche "Run to the hills" lo era: e come questa cade di grazia per una prolissa retoricità fatta di autocompiangimento. "2 minutes to midnight" tenta di fare eco a "Hellowed by the name": pur essendone sideralmente distante, vanta tuttavia un motivo coinvolgentissimo e come sfigurato da un sole (e si dovrebbe essere a mezzanotte: vorrà dire che la spiaggia del deserto egizio trattiene il calore rovente), tanto più accentuato dall'asfalto che ci sta sotto i piedi e si liquefa affondandoci mentre sempre più si cerca di aumentare la velocità della corsa (correre: è il tema più "Iron" che ci sia; "Maiden" serve per aggiungere: con la morte secca alle spalle).
"Losfer words" è uno strumentale di classe che non indugia in altro se non in una architettura compositivo/evocativa (le bende dei faraoni) ben riuscita. "Flesh of the blade" si insinua con quel cattivo dritto all'anima dell'iniziale assolo di Smith che, come sempre, è superlativo. Poi Dickinson dilata il panorama sino alle are del cielo in un soqquadro di fughe dal risultato di quell'invocazione da noi stessi cercata. "The duellist" continua in questa dimensione invasata di sudore e palpiti cardiaci al limite del respiro: rimane comunque, sempre, lo spazio per la contemplazione. "Back in the village" cala nella violenza e nei riti di una comunità primitiva; lo stato di natura, appena alterato da una cultura più spietata del primo. Soprattutto di innalza però un accenno di melodia che tenta di sintetizzare il tutto sorpassandolo. Dickinson, in quest'album, è soprattutto un narratore: narratore di storie tramandate da rivivere nel rabbrividire la pelle a sentirle e basta. "Powerslave" è la reazione che fa il sepolcro all'archeologo che lo ha riportato alla luce, tolto dalle care tenebre (da cui pur, la mummia, desiderava, in fondo, essere tratta per colpire ancora). Il tutto fascinosamente tanto più è sentito raccontato al sicuro, al balcone di una qualche cittadina europea, separata da ferrovie e traghetti dall'Egitto. Gli anni 80 dovevano ricreare tutto il sentimento avventuroso e strabiliato di uno Schlimann, di un cappello e una muta coloniale, applauditi e riveriti. "Rime of the ancient mariner" è una megalomania di 15 minuti in gran parte riuscita. Cosa c'entra un marinaio tra la sabbia egiziana? Tantissimo . basti pensare alla famose navi egizie, e fenice. E qui la Weltanschauung di Harris può digerire il suo boccone più grosso nel rendere in una dimensione anni '80 quello specifico stato situazionale (osteria - siamo comunque sempre in fantasy - e naufragio) di millenni fa. Formalmente oramai il gruppo si è stabilizzato in un vertice esecutivo.

Seventh son of the seventh son (EMI 1988)
Dopo un ottimo e celeberrimo live (Live after death, EMI, 1985) e un futuristico ma inutile album in studio (Somewhere in time, EMI 1986), i Maiden si ripresentano più trasognati ed appassionati che mai. Di un decennio in anticipo su tanti concept progressive-metal anni '90, questo è un album quasi new-age metal. Già la copertina dà nell'occhio per un accecante e totale color ghiaccio (terre siderali tra un libro segreto e magico, un cavaliere nero cercatore e un ragazzino che in anticipo su di lui deve, tanto per cambiare, correre per sfuggirgli). "Moonchild" immerge subito in una nuova atmosfera che, se pur ben riconoscibilmente Maiden, dimostra l'abilità di questi nel rendere il diverso uguale a loro. "Infinite dreams" prelude ancora a tematiche progressive-metal (intanto formalmente, cioè musicalmente, formato dai Queensriche con "Operation: Mindcrime"); poi però s'inalbera in uno stornello che solo i Maiden potevano partorire, e le lande nevose in cui conduce Dickinson sono pur in una storia a noi estranea, coinvolgentemente esistenziali. "Can I play with madness" fu il singolo (con tanto di video tra l'erba e i sotterranei di un'abbazia cistercense, che ben fa vedere quanto, proprio per l'eccesso formalizzato e reso retorica dei temi malefici e dell'oggettistica dell'occulto, sia quella dei Maiden un'operazione di artificio che nasconde persone dalla vita del tutto normale), ma non merita: troppo imbalsamata e talora troppo stile Guns'n'Roses, come andava in voga ai tempi. "The evil that man do" coltiva evanescente i sogni di Blind Guardian e compagnia, con quella componente di attaccamento alla vita "reale" che a questi manca. "Seventh son of a seventh son" riprende ampliandolo l'andamento di "Quest for fire": come ogni canzone di questo album è perfetta e melodica, forse troppo, e così spunta l'artificio che denuncia la perdita di quel connubio irripetibile di realtà e fantasia presente nei primi album. "The prophecy" fa gridare al sold out con la dilaniazione dell'organo cardiaco che incita per il suo troppo commuoversi: d'altra parte una chitarra lenta in mezzo a tante veloci sortisce sempre questo effetto; poi una chitarra alla Venom.
"The clairvoyant" è un succo appassionante, colonna sonora ideale per un film fantasy o un racconto di Tolkien. "Only the good die young" non svende, come a taluni è apparso, il gruppo alla commercialità fantasy (che ancora non c'era) ma ne fa, anzi, di questa un fondatore: subliminandola in più, come tanti altri non sono capaci di fare (tale arte, viene loro dalla lezione anni '70 dei Rush, più che dei Blue Oyster Cult, ma soprattutto degli UFO che avevano risemantizzato in linguaggio hard rock il mondo degli alieni).

Fear of the dark (EMI, 1992)
Dopo un inconsistente No prayer for the dying (EMI 1990) i Maiden si ripresentano con un album che all'epoca invase le chart di mezzo mondo e che è uno dei più celebri della loro carriera. Copertina celeberrima e la loro più suggestiva (assieme a quelle di Killers e Piece of mind), immola alla luna piena e in mezzo a un nebbioso azzurro notte centrale, ED trasformato in mostro-albero: poi una striscia nera bordata di giallo riequilibra il tutto. Gli Iron Maiden sono un gruppo "facile" e "melodico"; per questo piacciono a "tutti". L'immediatezza della loro musica, che per contorsione spesso si traduce in banalità di messaggio, è la medesima di quella del classico hard-rock di cui sono figli: ciò ha consentito loro di accattivare al loro mondo metal non solo, e naturalmente, gli adepti di questo mondo, ma anche e soprattutto tante provenienze dal gusto hard-rock. Adolescenti e chi ha fantasia e vitalità adolescenziale possono fruire completamente del lavoro Iron Maiden: e tanto più quanto più si va in là nella storia di questo gruppo, in quanto evolvere per loro significa abbandonare la commistione esistenziale-fantastica dei primi lavori verso un predominio della seconda. Siamo negli anni '90 e anche la lunghezza degli album si amplia: un'ora (sinceramente troppo per non tediare o istupidire), che poi sarà l' "ora" di tutti i vari album power, progressive ed epic.
"Be quick or be dead" parte all'arrembaggio con un entusiasmante rullo di batteria, un altrettanto stregante urlo di Dickinson che crea suadentemente tanta atmosfera fantasy-horror; le chitarre poi (dove Janick Gers ha purtroppo preso il posto di Smith) intrecciano un fraseggio al cardiopalma. Non è un capolavoro ma tra i meno-noiosi brani dell'ensemble.
"From her to eternity" profonde armonie epico-patetiche alla Manowar senza lontanamente stringere. "Afraid to shoot strangers" giunge con una di quelle per quanto melense inattaccabili atmosfere: la voce di Dickinson le appoggia sapientemente; prima della partenza verso squadrati riff commoventi.
"Fear is the key" cambia passo e assume una forma slide quasi bluseggiante; poi zoppica in un funk allentato da dosi e dosi di melodia.
"Childhood'end" riesce a portare prossimo al sublime il melodico; riesce a sapere tremendamente di terra d'Inghilterra, di avventure castellane rivissute nella modernità e ancor più affascinanti. "Wasting love" dal titolo scoraggia, poi, per quanto patetica, non si può non cedere al suo fascino. La dimensione "vita-vera" con questo brano e in quest'album in generale fa capolino ancora, come non accadeva da anni e non accadrà quasi più. "The fugitive" tenta di ovviare alla banalità del tema (ancora corsa! Devono avere un fiato, questi Maiden .) con un inno medievalmente autunnale e macilento; ma il ritornello non merita che mediocrità.
"Chains of misery", "The apparition", "Judas be my guide", "Weekend warrior" hanno poco senso di esistere se non il fatto che, poste in gran parte degli album metal, risulterebbero hit irresistibili per il loro appeal armonico, semplice e trascinante. Qua e là si hanno spunti eccezionalmente convincenti e stimolanti, ma nessun brano riesce a giustificarli da un imbarazzante a sé stare.
"Fear of the dark" prova il colpaccio finale: sul suo riff e sulla sua struttura si baseranno i prossimi due album dei Maiden di cui forse è il miglior sunto; almeno in questo, il brano, sempre fascinoso (miasmaticamente fascinosi sono sempre i Maiden, come gran parte dei classici che il pubblico di massa ama: dai Beatles agli U2) è oggettivamente importante perché racchiude 10 anni (tutti i '90) di suono Iron Maiden.

The X Factor (EMI 1995)
Mentre Dickinson se n'è andato per una carriera solistica senza senso, Harris si dà alla pubblicazione di inutili live (A real live one, EMI 1993, A real dead one, EMI 1993, Live at Doninghton '92, EMI 1994), poi assolda Blaze Bayley per un album che tenta di far rivivere i fasti del Nightfall degli svedesi Candlemass, che nell'87 portarono intuizioni Black Sabbath, Rainbow e Venom alla codifica del cosiddetto "epic metal". L'epico proposto dai Maiden è quello futuristico, tuttavia, in quanto fantasy, sempre centrato su una "mentalità" e "morale" ancestrale-medievale. E a distanza di otto anni il booklet almeno (con ED in sedia elettrica vittima di devastazioni cerebrali per esperimenti sadico/genetici) mantiene tale tono. 70 minuti in piena era Blind Guardian, dove i Maiden tentano di assumersi sulle spalle un presente musicale con l'esperienza dei vecchi intenditori che quel presente hanno fatto nascere.
"Sign of the cross", un coro di monaci, è la traduzione magniloquente delle campane di Black Sabbath; poi trame chiatarristiche (di cui oramai i Maiden, da Piece of Mind in poi, sono diventati esperti) preparano il terreno alla calda e piena voce di Bayley. "Lord of the flies" estranea con chitarre acide, su cui poi si impongono riff decisi in progressione. Le atmosfere sono da osteria-spaziale con mostriciattoli e maghi-stregoni di fantastico-medievale memoria: commistione di sacro e profano; di Black Sabbath e Malmsteen (il vero apristrada ai rozzi Dream Theater).
"Man on the edge" si crogiola in quest'ambientazione terrestramente cosmica. "Fortunes of war" è l'ennesimo lento che si innalza a battaglia; lo fa con un'eleganza sconosciuta e inarrivabile per Stratovarius e compagni. "Look for the truth", data la lunghezza media dei brani (oltre i 6 minuti), quando si presenta intima e placata sembra un miracolo per orecchi che poi dovranno sostenere un continuo crescendo in corali bordate. Ogni canzone di quest'album rispecchia il medesimo schema; si assomigliano tutte, queste composizioni, apparendo quasi indistinguibili l'una dall'altra. Tuttavia il perfetto equilibrio e la grazia di ognuna ne fa, di tutte, quello che per lo spietato destino non sono potute essere: dei classici. "The aftermath", "Judgment of heaven", "Blood on the world's hands", "The edge of darkness", "2 A.M.", "The unbeliever", sembrano fatte con lo stampino; tutte eccezionalmente perfette; nessuna innovativa, tutte classiche perché sembra di averle sentite da sempre. Bayle (o l'io di Harris) è riuscito con la sua ingenuità e dedizione a depurare il gruppo dall'ormai scomoda e ingombrante pletorica di Dickinson.
Più di tutto, colpisce però la voglia di "giocare" e di "credere", cioè di vivere (e di farlo nel segno della "paura del buio"), che dopo tanti anni non ha abbandonato Harris. Si può chiamare testardaggine, ma in questo specifico caso non si è autorizzati, perché il vecchio cuore del poeta dei cimiteri londinesi, almeno per un'ultima volta, ha pulsato di sincerità e passione.

Virtual XI (EMI 1998), l'undicesimo album in studio per i Maiden, sembra (come "Reload" per "Load" dei Metallica: a proposito di gente che in materia di cambio genere ne sa qualcosa) l'edizione di brani scartati dall'ottimo album precedente; molto più breve (quasi la metà), accentua la dimensione "futuristica" e "post-industriale" senza perdere un adolescenziale profumo di fragole e cimiteri da scoprire.

Per Brave New World (EMI 2000) torna Dickinson, ma ormai la storia degli Iron Maiden è finita. Dance of death (2003) 5/10

Lo conferma Dance Of Death (2003) che dalla sua, nonostante lo sbraitare di Dickinson e il dispiegamento di ben tre chitarre, ha soltanto una discreta potenza, tanta tecnica e troppa retorica (fino a sconfinare nel plagio - di se stessi e di altri).








07/04/2007 15:39
 
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Gli inizi
Dave Mustaine, dopo essere stato cacciato dai Metallica per la sua tendenza ad abusare di alcool e droghe (secondo James Hetfield e Lars Ulrich, anche se Mustaine parla di abbandono per "divergenze artistiche"), decide di non abbandonarsi ma di cercare musicisti per formare una nuova band. Fondò il suo primo complesso, i "Fallen Angels", ma venne sciolto immediatamente per motivi sconosciuti. Dopo poco tempo, creerà la sua nuova formazione, i Megadeth. Il nome Megadeth, ha una origine tra il macabro e lo humour nero, anche se Mustaine voleva riferirsi soprattutto alla potenza sonora sprigionata dalla band, difatti un "megadeth" corrisponde al potenziale distruttivo di una testata nucleare capace di provocare la morte di almeno un milione di persone. Il nome venne tratto da un articolo di giornale che Mustaine lesse sul pullman mentre tornava a Los Angeles (dopo la cacciata dai Metallica), sulle conseguenze di un'esplosione atomica. I vari reclutamenti iniziano con il bassista Matt Kisselsten e il batterista Dijon Carruthers. Dopo poco tempo, avvengono i primi cambi e Kisselsten abdica in favore di David Ellefson che porta anche un suo amico, Greg Handevidt a completare le chitarre. Dopo le prime apparizioni nei club di San Francisco, si presume che Handevidt venne licenziato da Mustaine (non è una battuta) perché non aveva capelli. Anche Carruthers lascia presto il gruppo e il suo posto viene occupato da Lee Rausch. Mustaine, assieme al fedele Ellefson, continua la ricerca di personale. Non trovando un chitarrista disoccupato contattano Kerry King, che già suonava negli Slayer, e non trovando un cantante adatto per il gruppo, Dave decide di diventare anche la voce della band. Anche questa line-up è destinata a durare pochissimo tempo, dato che Rausch entrò nei Dark Angel mentre King (secondo quanto detto da lui) litigò con Mustaine e se andò per suonare solamente con gli Slayer.

L'ascesa
Nel 1984, subentrano Gar Samuelson alla batteria e Chris Poland alla chitarra (entrambi provenienti da un gruppo Jazz chiamato "The New Yorkers") e questa è la prima formazione ufficiale dei Megadeth. L'anno successivo, la band pubblica il suo primo album, Killing Is My Business... And Business Is Good!. Il disco é molto grezzo ma allo stesso tempo elaborato e tecnicamente ineccepibile; tuttavia mostra le sue carenze a livello di produzione poiché, su ammissione di Mustaine stesso, la band avrebbe speso i soldi, dati loro per la produzione, in droga. In ogni caso destò l'attenzione della major Capitol Records che decise di mettere il gruppo sotto contratto. Il successivo lavoro stupisce molto gli addetti ai lavori ed anche le altre band del settore, tanto che Bruce Dickinson degli Iron Maiden, in una intervista durante le presentazioni di Seventh Son of a Seventh Son, nel definire il thrash metal un genere che si è limitato da solo, non lesina i complimenti a Peace Sells... But Who's Buying? (1986) ("La pace è in vendita...ma chi la compra?"), lavoro che testimonia un impegno politico dei 'deth (nomignolo che i fans danno alla band), che non mancherà praticamente mai nei lavori successivi. Nello stesso anno, i Megadeth intraprendono una tournée, facendo da spalla ad Alice Cooper per il suo Constrictor tour. Per Mustaine è un grande onore suonare con Cooper, essendo uno dei suoi maggiori idoli della sua giovinezza. L'eccessivo abuso di droghe e la scarsa attenzione sul lavoro da parte di Chris Poland e Gar Samuelson, tuttavia, spinge Mustaine a licenziarli; i due vengono immediatamente sostituti da Chuck Behler alla batteria e Jeff Young alla chitarra. È con loro che viene registrato So Far, So Good... So What! (terzo lavoro della band), disco più melodico rispetto ai precedenti e con rilevanti influenze punk, caratterizzato da vere e proprie hit, come ad esempio In My Darkest Hour. Su questa canzone c'è da aprire un piccolo capitolo. Infatti è stata scritta da Mustaine per onorare la memoria di Cliff Burton (nome abbrevviato di Clifford Lee Burton), all'epoca bassista dei Metallica e loro membro più hippie, morto in un incidente stradale nel nord Europa, durante la tourneè di Master Of Puppets. Il testo, infatti, parla di una persona in punto di morte che resta sola, abbandonata dagli affetti femminili, una condizione che non di rado si ritrova nelle canzoni dei 'deth, diretta conseguenza del carattere spigoloso di Mustaine. Sia musica che testo sono considerati, da critica e fans, molto belli, ma, secondo alcuni critici, non sembrerebbero coevi.Il gruppo arriva, con questo disco, a vendere più dei rivali Metallica, che fecero uscire ...And Justice For All), evento che produce una breve (ma anche enorme) soddisfazione per Dave. I titoli dei loro primi tre dischi hanno anche in comune il fatto di essere composti da una frase, tre puntini di separazione, ed una chiosa.

La droga
I problemi di tossicodipendenza del leader causano non pochi problemi alla band durante la tournée di supporto al disco, portandola ad annullare alcune date in seguito ad arresti o a repentini ricoveri in ospedale di Mustaine. Il culmine però lo raggiunge nel 1989, quando viene arrestato per guida in stato di ebbrezza e possesso di sostanze stupefacenti, bloccando l'attività del gruppo che era in procinto di entrare in studio. Mustaine entra così in un programma di disintossicazione. Durante la sua degenza, il leader cambia di nuovo formazione della band, facendo audizionare alla chitarra e alla batteria vari personaggi nell'ambito metal (tra cui Jeff Waters degli Annihilator, Dimebag Darrel dei Pantera e Dave Lombardo degli Slayer) alla ricerca della "formazione perfetta". Alla fine la scelta ricade, rispettivamente, sul noto guitar hero Marty Friedman e sul batterista di scuola jazz Nick Menza (tecnico della batteria di Behler).

Il successo
Con la nuova formazione viene registrato il masterpiece del gruppo, Rust In Peace, nel 1990. Il gruppo ritorna ai cambi di tempo e alla complessità dei primi due dischi, pur non abbandonando la melodia. Perle del disco sono Holy Wars...The Punishment Due e Tornado of Souls. Con questo disco i 'deth si consolidano (momentaneamente) come prima realtà americana nell'ambito thrash metal e vincono, l'anno successivo, il loro primo Grammy. Anarchici per vocazione, i Megadeth non lesinano in questo periodo critiche all'amministrazione di George H. W. Bush pur appoggiandone, paradossalmente, le scelte sulla prima Guerra del Golfo. Nello stesso anno, il gruppo partecipa al tour mondiale "Clash of the Titans", assieme a Slayer, Testament e Alice In Chains, che si rivelò molto seguito dal pubblico, registrando il tutto esaurito. Trovata finalmente stabilità, il gruppo entra in studio nel 1991 per la registrazione del loro quinto lavoro. Nel frattempo esplode il Black album (Metallica) dei Metallica che vende milioni di copie in tutto il mondo e porta la band a diventare il primo nome assoluto del metal mondiale. Mustaine, forse invidioso del successo del suo ex-gruppo, comincia a riversare critiche a tutto spiano nei loro confronti e dà alla luce, l'anno dopo, a Countdown To Extinction. Il disco, quasi a voler rivaleggiare con quello dei rivali, presenta pezzi più semplici e melodici, contenendo addirittura un potenziale "supersingolo", ossia la title-track. L'album venne fortemente acclamato (poco più di 2.000.000 di copie vendute negli U.S.A.) ed è inoltre il lavoro di maggior successo commerciale dei Megadeth, ma i risultati sono ben lontani da quelli ottenuti dai Metallica. Iniziano, così, a piovere dissensi da parte dei sostenitori storici della band, accusandoli di seguire le mode musicali del momento e le loro critiche non si placano nemmeno al giorno d'oggi. I 'deth continuano però ad essere nominati per i Grammy Awards e così sarà fino al 1997.

L'evoluzione
Questo non basta a Mustaine che è estremamente desideroso di trovare la formula giusta per bissare il successo dei suoi colleghi di un tempo. Con la stessa line-up, nel 1994, viene dato alle stampe Youthanasia, disco nel quale le radici thrash del gruppo vengono del tutto abbandonate e il suono diventa ancora più melodico e da classifica. Ancora una volta l'album vende bene e ancora una volta rende delusi i vecchi fans, ma la vetta raggiunta dai "Four Horsemen" rimane lontana. Molti ricordano questo disco per la sua semplicità d'ascolto che lo porta ad essere uno di quelli con cui si viene "iniziati" al metal. Dopo l'uscita di un disco di covers e b-sides, Hidden Treasures, i 'deth danno alle stampe un disco nuovo di zecca solo nel 1997, Cryptic Writings. La produzione è all'altezza del nome della band, i pezzi arrangiati in modo ottimale; tuttavia, il disco non viene ben accolto, tanto che molti fan arrivano a boicottare i loro concerti. In realtà su Cryptic Writings vi è un parziale ritorno alle sonorità del passato e, alcune canzoni come Trust e She Wolf, sono considerate tra le migliori del gruppo. A peggiorare la situazione vi è il fatto che il batterista Nick Menza è costretto, per problemi di salute, a lasciare la band durante la tournée. Con lui i Megadeth perdono un membro molto utile, sostituito dal meno appariscente ma altrettanto bravo Jimmy DeGrasso; per il resto la formazione rimane invariata.

La crisi
Nelle interviste successive alla fine della tourneé, Mustaine comincia a parlare di una vera e propria rivoluzione nel suono della band, e di un disco che non avrebbe avuto precedenti. Le sue parole prendono corpo nel 1999 con l'uscita di Risk, considerato il più grande passo falso della formazione. Il suono della band é radicalmente cambiato, il metal viene completamente abbandonato in favore di un rock fortemente contaminato da effetti elettronici (un esempio il singolo Crush'Em, per capirne il genere). Il disco viene stroncato dalla critica e stigmatizzato dai fans (ovviamente, ancor di più da quelli del primo periodo della band), e per la prima volta Mustaine viene "punito" per aver cercato a tutti i costi la formula vincente. L'album é un totale insuccesso commerciale, vende solo 200.000 copie negli Stati Uniti e rappresenta il risultato più basso di vendite dei 'deth da Peace Sells... But Who's Buying?. Comunque, i critici ha sostenuto che il disco presenta alcuni brani di modesto valore come "Prince Of Darkness", "Breadline" e la jazzata "Seven". Questo porta la Capitol ad abbandonare la band sul ciglio della strada, facendogli "completare" gli obblighi contrattuali, l'anno dopo, con l'uscita di un best-of Capitol Punishment, dal titolo decisamente ironico vista la situazione e un tentativo di recuperare i molti fans traditi dalla svolta musicale del quartetto. Mustaine dà la colpa dell'insuccesso ai produttori e a Marty Friedman (basti pensare che ha partecipato alla composizione di quasi tutti i pezzi di Risk) che viene infatti silurato dalla band; il suo posto viene preso da Al Pitrelli, chitarrista rock famoso per aver suonato con band come Asia, Alice Cooper, Widowmaker e Savatage. Nel 2001 viene dato alle stampe The World Needs A Hero, su Sanctuary Records, un album dove Mustaine abbandona i recenti esperimenti musicali, visti i pessimi risultati commerciali. Pur non trattandosi di un prodotto all'altezza dei primi dischi, l'album viene accolto modestamente e le vendite danno ragione alla scelta del gruppo di tornare al metal. Nell'album spicca il brano "Dread And The Fugitive Mind" che rivaleggia con i classici del passato. Dalla tournée successiva viene tratto anche un live album, Rude Awakening, il primo nella storia della band. Gli affari sembrano così andare di nuovo a gonfie vele per il gruppo di Mustaine. Come un fulmine a ciel sereno, arriva però, improvvisa, il 4 aprile 2002, la notizia dello scioglimento della band. Il motivo sarebbe un problema al polso di Mustaine, che non gli permetterebbe più di suonare la chitarra come prima. In realtà c'é chi sostiene che lo scioglimento fosse stato causato dal mancato pagamento di debiti, derivanti da diritti d'autore, da parte di Mustaine stesso nei confronti del bassista Dave Ellefson, per cui successivamente verrà intentata anche una causa.

La rinascita
Dopo un periodo di terapia per risolvere il suo problema, Mustaine annuncia che tornerà a fare musica, non precisando se come solista o con una nuova formazione dei Megadeth. Per la gioia dei fans (e per motivi commerciali), sceglie la seconda opzione: raduna una band di turnisti, tra cui Chris Poland, il chitarrista degli esordi del gruppo e divenuto ora maestro di musica, e il notissimo session-man Vinnie Colaiuta, batterista che non ha mai suonato metal a livello professionale e dà vita a The System Has Failed (2004). Bisogna premettere che non c'è stato il ritorno ai gloriosi anni '80, ma finalmente si torna a ragionare sia in termini di vendite che di gradimento, questo porta Mustaine ad imbarcarsi in un tour (all'inizio infatti, erano previste solo poche date di promozione) con una line-up nuova di zecca, e a dare vita al Gigantour (nome preso da Gigantor, un cartone animato che Mustaine seguiva molto durante l'infanzia), evento musicale che nelle sue idee dovrebbe costituire una valida alternativa all'Ozzfest. A questo evento parteciperanno band quali Dream Theater e Nevermore. Inoltre, per sua volontà, vengono ristampati tutti i dischi da studio della band, in collaborazione con l'ex etichetta Capitol. La nuova e apparentemente affiatata line-up comprende l'ex bassista di White Lion e Black Label Society James LoMenzo e i fratelli Glen e Shawn Drover (Eidolon) rispettivamente alla chitarra e alla batteria. Nel 2006 Mustaine abbandona definitivamente l'idea di mettere in pensione i Megadeth e Vic Rattlehead, al contrario rientra in studio con la nuova formazione e registra "United Abominations", nuovo capitolo che si preannuncia ricco della classica polemica politica dei 'deth. Per il 2006 anche il Gigantour ritornerà con nuove bands e stavolta oltre agli USA toccherà anche Europa e Australia. Nel frattempo sono stati dati alle stampe un altro greatest hits e un DVD dal titolo "Arsenal of Megadeth" con video e live inediti. Nel Ottobre del 2006 è ripartito il Gigantour con band come Arch Enemy,Lamb Of God,Opeth,Overkill.Quest'anno il gigantour farà un breve passaggio anche in australia assieme ai Soulfly

Il futuro
È atteso per il 15 maggio 2007 un nuovo album intitolato United Abominations, descritto da Dave Mustaine con queste parole: "Adoro quest'album, è così duro che lo si potrebbe usare per tagliare il vetro!". Il 6 marzo 2007 verrà pubblicato un DVD intitolato That One Night: Live In Buenos Aires. Il live è stato filmato all'Obras Staduim di Buenos Aires durante il Blackmail the Universe Tour.








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